IL
PIÙ GRANDE VENDITORE D’ACQUA
di
Paolo Carsetti*
All’inizio
dell’estate 2009, quindi a circa un anno dal manifestarsi dei primi segnali
della crisi, l’allora presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, invocò a
gran voce un provvedimento in grado di far “ripartire l’economia” garantendo
alle lobbies economiche e finanziarie l’apertura di nuove fette di mercato.
Veniva individuata, come soluzione più efficace, la definitiva privatizzazione
della gestione dei servizi pubblici locali. Il governo in carica non si fece
attendere e, già nel primo Consiglio dei Ministri dopo la pausa estiva, licenziò
il cosiddetto “Decreto Ronchi” tramite il quale si obbligavano di fatto gli enti
locali a mettere a gara il servizio del trasporto pubblico locale, la gestione
dei rifiuti e il servizio idrico integrato o comunque a rendere minoritaria la
partecipazione pubblica nelle aziende.
Il
movimento per l’acqua per tutto l’autunno portò avanti la campagna “Salva
l’acqua” raggiungendo l’importante risultato di mettere al centro del dibattito
pubblico il tema della privatizzazione dell’acqua e dei beni comuni. Nonostante
ciò il decreto divenne legge. Quei mesi di mobilitazione risultarono, però,
utili alla costruzione della campagna referendaria avviata con la raccolta firme
nella primavera del 2010 e proseguita fino al voto del 12 e 13 giugno 2011 con
lo straordinario risultato di 27 milioni di italiane e italiani che decisero di
schierarsi a difesa dell’acqua e dei beni comuni.
La
rilevanza di quel risultato, tra le altre cose, sta nell’aver messo in
discussione alla radice le politiche neoliberiste ponendo un argine al dilagare
del mercato. Proprio per questo, sin dalle prime settimane, l’esito referendario
fu messo sotto attacco. Le istituzioni europee sono state le prime ad
accorgersene. E quando c’è da difendere gli interessi dei capitali finanziari le
risposte non si fanno attendere. Il 5 agosto Trichet e Draghi, a capo della BCE,
inviarono una lettera al governo in cui si ribadiva l’esigenza di rilanciare
“una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, (...) attraverso
privatizzazioni su larga scala”. Ovvero, è necessario dare immediatamente un
segnale forte per cui le formule liberiste alla base delle politiche economiche
europee non possono subire rallentamenti, a maggior ragione se questi derivano
dall’espressione della volontà popolare tramite strumenti di democrazia diretta
come il referendum.
Il
governo Berlusconi già traballante, non ci mise più di una settimana a dare un
segnale incontrovertibile di sudditanza alla BCE e ai suoi diktat. Il 13 agosto
varò la cosiddetta manovra economica bis, uno dei provvedimenti più irrispettosi
delle regole democratiche che il nostro Paese abbia conosciuto. L’articolo 4
era, di fatto, uno schiaffo ai 27 milioni di votanti al referendum. Infatti
veniva riproposta la stessa normativa abrogata dai referendum, pur con la foglia
di fico di tenerne fuori l’acqua. Solo un anno dopo la Corte Costituzionale,
sollecitata da diverse regioni, censurò nettamente quell’articolo proprio perché
in contraddizione con l’esito referendario.
Oggi,
a distanza di tre anni, ci troviamo in una situazione molto simile. La novità
più pesante, però, è l’approfondimento della crisi economica e sociale.
Nonostante ciò al governo italiano vengono imposte le solite ricette che passano
attraverso riforme strutturali. Riforme che si basano sempre sugli stessi
principi: deregolamentazione, riduzione dei diritti, privatizzazioni e in
generale allargamento della sfera d’intervento del privato a scapito di quella
pubblica. Da ciò deriva che il governo attuale, entro il termine dei sei mesi di
presidenza di turno dell’UE, quindi entro fine anno, deve necessariamente
portare qualcosa al tavolo della trattativa europea. Per questo sta accelerando
sulle riforme istituzionali, su quelle che riguardano il mondo del lavoro, la
scuola, il rilancio delle privatizzazioni e più in generale una rinnovata
mercificazione del territorio e dei beni comuni.
Ed
ecco che la storia si ripete, anche questa volta per garantire gli interessi dei
mercati e delle lobbies finanziarie. Come nel 2011, al rientro dalla pausa
estiva, il Consiglio dei Ministri vara un decreto, lo “Sblocca Italia”, che
segnala un deciso cambio di fase nelle politiche governative costruendo un piano
complessivo di aggressione ai beni comuni tramite il rilancio delle grandi
opere, misure per favorire la dismissione del patrimonio pubblico,
l’incenerimento dei rifiuti, nuove perforazioni per la ricerca di idrocarburi e
la costruzione di gasdotti, oltre a semplificare e deregolamentare le
bonifiche.
Ma
la continuità con il passato appena descritto si apprezza nel fatto che questo
provvedimento mira di nuovo alla privatizzazione del servizio idrico. Infatti,
si modifica profondamente la disciplina riguardante la gestione dell’acqua
arrivando ad imporre un unico gestore in ciascun ambito territoriale e
individuando, sostanzialmente, nelle grandi aziende e multiutilities, di cui
diverse già quotate in borsa, i poli aggregativi.
Ciò
si configura come un primo passaggio propedeutico alla piena realizzazione del
piano di privatizzazione e finanziarizzazione dell’acqua e dei beni comuni che
il governo sembra voler definire compiutamente con la Legge di Stabilità. In
questo provvedimento, probabilmente, verranno inserite quelle norme, in parte
già presenti nelle prime versioni del decreto circolate all’indomani del
Consiglio dei Ministri di fine agosto, volte a imporre agli Enti Locali la
collocazione in borsa delle azioni delle aziende che gestiscono servizi
pubblici, oltre a quelle che costringono alla loro fusione e accorpamento
secondo le prescrizioni previste dal piano sulla “spending review”. Si
arriverebbe, addirittura, a costruire un vero e proprio ricatto nei confronti
degli Enti Locali i quali, oramai strangolati dai tagli, sarebbero spinti alla
cessione delle loro quote al mercato azionario per poter usufruire delle somme
derivanti dalla vendita, che il governo pensa bene di sottrarre alle tenaglie
del patto di stabilità.
Con
il decreto “Sblocca Italia” si svelano, dunque, le reali intenzioni del governo,
ovvero la diretta consegna dell’acqua e degli altri servizi pubblici locali agli
interessi dei grandi capitali finanziari. Infatti, la strategia governativa, pur
ammantandosi della propaganda di riduzione degli sprechi e dei costi della
politica mediante lo slogan “riduzione delle aziende da 8.000 a 1.000”, non
garantirà certamente l’interesse collettivo ma solo quello economico e di
massimizzazione dei profitti delle grandi aziende multiutilities che già
gestiscono acqua, rifiuti e trasporto pubblico locale.
La
battaglia per il diritto all’acqua, che il Forum Italiano dei Movimenti per
l’Acqua porta avanti da quasi dieci anni, si inserisce esattamente in questo
contesto e finora ne ha saputo cogliere i limiti e le debolezze, riuscendo ad
ottenere diverse vittorie, a partire da quella referendaria. È evidente, però,
che oggi si rischia di essere costretti ad una posizione difensiva, dovuta ad un
nuovo, profondo e determinato attacco, che il governo intende mettere in campo
in questo autunno.
Da
una parte risulta fondamentale riattivare l’interlocuzione, dove possibile, con
gli enti locali che continuano a perdere la loro autonomia decisionale ed
economica, attraverso i vincoli del patto di stabilità e la riorganizzazione
conseguente alla legge Del Rio sulle province e città metropolitane. Dall’altra
bisogna ripartire dalla ricchezza di quello che il movimento per l’acqua ha
saputo mettere in campo negli ultimi tre anni, per rilanciare una prospettiva
nazionale per il diritto all’acqua e per la difesa dei beni comuni.
Più
in generale per opporsi a questa strategia governativa che, in perfetta sintonia
con i governi precedenti, punta alla piena attuazione delle politiche liberiste,
diviene determinante rilanciare visioni alternative, costruire un’alleanza
sociale per i beni comuni che, a partire dalla valorizzazione delle singole
lotte, dia vita ad una mobilitazione sociale diffusa e ampia.
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