BHOPAL
TRENT’ANNI DOPO, IL DISASTRO INFINITO
Sono
passati trent’anni dal più grande disastro chimico della storia, quello di Bhopal, in
India, dove nella notte tra il 2 e il 3 dicembre 1984 una nube altamente tossica
si sprigionò dallo stabilimento della Union Carbide, dove dal 1977 si produceva
l’Experimental Insecticide Seven Seven, l’insetticida sperimentale sette, detto
Sevin. L’obiettivo era sfornarne 30.000 tonnellate l’anno. Il Sevin si produceva
a partire dal mic (isocianato di metile), una molecola così instabile da
scatenare, al solo contatto con qualche goccia d’acqua o qualche grammo di
polvere metallica, reazioni di incontrollabile violenza. E fu proprio il
contatto accidentale di 40 tonnellate di mic con l’acqua a innescare
l’incidente.
Non
c’è accordo sul numero dei morti, 25.000 secondo Amnesty International, tra
8.000 e 10.000 secondo il Centro di ricerca medica indiana, ma almeno 500.000
persone hanno subìto e accusano tutt’oggi gravi patologie a causa della
contaminazione, tra cui tumori, malformazioni gravi, cecità, disturbi della
respirazione.
L’ecocidio
di Bhopal è un simbolo della mancata assunzione di responsabilità da parte delle
imprese, ed è importante tenerne viva la memoria per evitare che si ripeta.
Perfino dopo trent’anni gli effetti negativi sulla popolazione continuano ad
essere notevoli, e ancora non vi è stata una effettiva bonifica del sito dai
rifiuti tossici. Dopo 25 anni si è arrivati alla condanna di otto dipendenti
indiani della fabbrica (due anni di carcere e 100.000 rupie, circa 2.000 dollari
di multa), mentre quello che è sempre stato considerato il maggior responsabile,
il presidente dell’azienda chimica statunitense Union Carbide Warren Anderson,
non è mai stato processato in quanto latitante mai estradato dagli Stati Uniti,
dove è morto un paio di mesi fa. E ancora oggi la strage di Bhopal non ha avuto
giustizia, come attesta anche il sondaggio
pubblicato pochi giorni fa, realizzato da YouGov per Amnesty International in
occasione del trentesimo anniversario del disastro: oltre l’82% degli
intervistati in India vuole vedere la Union Carbide in tribunale, e il 62% degli
intervistati statunitensi si è dichiarato d’accordo.
Nel
1989 si raggiunse un accordo e la Union Carbide pagò 470 milioni di dollari per
i danni causati dal disastro. Ma la bonifica non è mai stata portata avanti e
ancora oggi la contaminazione avvelena gli abitanti della regione, come hanno
dimostrato diversi studi che si sono succeduti in questi decenni. Tra cui quelli
del Centre for Science and Environment (Cse)
indiano, che confermano che il suolo e la falda acquifera continuano a essere
contaminati con mercurio, nichel e altri metalli, agenti chimici e pesticidi
residui del sito dismesso e mai completamente bonificato, dove restano 350
tonnellate di rifiuti tossici abbandonati. E il veleno è ancora ovunque,
nell’acqua che viene bevuta, data agli animali, usata per le colture e per
lavare i panni, nello stagno in cui i bambini fanno il bagno e dove gli adulti
pescano. «Il fenomeno annuale dei monsoni che spazzano la regione con le loro
forti piogge fa sì che queste sostanze continuino a entrare in contatto con
l’acqua di falda, ovvero quella utilizzata dalla popolazione. Questo è il motivo
per cui gli effetti di Bhopal continuano, non necessariamente in un’area più
grande rispetto all’inizio, ma in maniera inarrestabile – spiega Savraj Kaur,
impegnata in una campagna di sensibilizzazione con l’associazione “The
Bhopal medical appeal” –. Quando parlo di “secondo disastro” mi riferisco al
fatto che la popolazione indiana di Bhopal ancora oggi risente sulla propria
pelle degli effetti negativi dovuti all’inquinamento, iniziato molto prima
dell’incidente a causa di un continuo smaltimento illegale dei rifiuti
industriali a opera dello stabilimento. Chi vive a Bhopal ha da sempre bevuto
quell’acqua contaminata da pesticidi e altre sostanze nocive che ne hanno
causato inevitabilmente gravi conseguenze per la salute».
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