domenica 22 marzo 2015

ECCO LA “GUERRA” CHE CAMBIA IL POTERE IN ITALIA

ECCO LA “GUERRA” CHE CAMBIA IL POTERE IN ITALIA
di Giulio Sapelli
La Cina sta profondamente trasformando il suo volto. Che cosa stia accadendo, tuttavia, è molto misterioso. Xi Jining ha recentemente affermato nel corso dell’Assemblea del Popolo, che egli è disposto a difendere la sua linea politica anche a costo della vita”.
Una dichiarazione che è sfuggita agli osservatori internazionali, ma che, a chiunque conosca la liturgia confuciana del Partito Comunista cinese, fa tremare i polsi. È il riflesso della sanguinosa e profonda lotta interna al Partito. Xi Jinping ha nel corso dell’ultimo anno incarcerato, torturato, giustiziato più di 400.000 quadri con accuse di corruzione e di malversazione. Fra di essi grandi signori della guerra come Bo Xi Liang, sindaco di una piccola città di 30 milioni di abitanti, Zua Quokufeng, capo dei servizi segreti e vice comandante della Commissione militare del Partito, e molti altri di così altissimo lignaggio.
Nel mentre, a livello internazionale, la Cina, dal Mar Cinese del Sud sino all’Oceano Indiano, apriva contenziosi territoriali, generalmente rispetto a sperdute isole sovrastanti ricchi giacimenti di idrocarburi, con pressoché tutte le sue nazioni confinanti, dal Giappone al Vietnam, alla Tailandia, alla Corea del Sud, alle Filippine, al Brunei, alla Malesia, senza contare l’India con cui continua un pluridecennale conflitto territoriale. Ma contemporaneamente, come su scala infinitamente minore fece la Germania tra Ottocento e Novecento in Europa, la Cina, così, ha iniziato a costruire una possente rete di istituzioni alternative al potere dominante del mondo di oggi, ossia agli USA.
Tra Ottocento e Novecento, anzi, fino al 1956, con la crisi di Suez, quel potere dominante era il Regno Unito, anche se dopo la fine della seconda guerra mondiale i suoi gruppi dirigenti avevano ben compreso che l’ora del dominio economico mondiale era suonata a favore degli USA. Oggi la Cina sta costruendo una rete di istituzioni finanziarie alternative a quelle egemonizzate dagli USA e dai suoi alleati europei. Si è iniziata con la BRICS Bank che raccoglie appunto Brasile, Russia, India e Cina e si è continuato con la New Silk Road che unisce in un progetto infrastrutturale e finanziario i Paesi che, dalla Mongolia all’Afghanistan, sino alla Turchia, costituiscono il cuore dell’Eurasia, o meglio dell’Heartland, sulla rotta che fu di Alessandro Magno, al quale Xi Jinping si dice spesso idealmente si accomuni.
Dinanzi a queste iniziative l’Occidente è rimasto muto, sprofondando nel suo autismo germanico in Europa e nella sua dissociazione schizofrenica negli USA. Pensate alla follia del Congresso americano in cui la maggioranza repubblicana sfida l’inconsapevole povero Obama invitando Netanyahu a parlare senza l’assenso del presidente, correndo il rischio di aver provocato una scissione insanabile tra presidente e Congresso appoggiando un isterico ometto che forse uscirà sconfitto nelle elezioni in Israele, non tanto e non solo perché superato nei voti dal nuovo laburismo alleato col centro, ma soprattutto perché contestato dal cosiddetto partito dei pensionati, formato dai quadri del Mossad e dagli alti gradi dell’esercito. Un vero capolavoro, non c’è che dire.
Il disordine sta diventando caos. In questo caos la Cina mette in cascina un altro risultato. Crea nell’ottobre 2013 l’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) che si propone la missione di creare infrastrutture nella regione asiatico-pacifica in diretta concorrenza con il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e la Banca Asiatica di Sviluppo, quest’ultima con sede a Manila. Com’è noto, queste tre istituzioni sono dominate dagli USA e dal Giappone, unitamente a un ruolo secondario, ma importante, degli europei. La Banca Asiatica di Sviluppo, in una sua relazione del 2010, sosteneva che per realizzare il complesso di infrastrutture necessarie allo sviluppo dell’area euro-asiatica si sarebbero dovuti come minimo investire 8 trilioni di dollari dal 2010 al 2020. Finora nulla è stato fatto ed è per questo che la nuova istituzione, promossa dalla Cina, nel lasso di tempo dal 2013 al 2014, aumentava il suo capitale da 50 a 100 miliardi con l’intervento decisivo dell’India nella cofondazione della stessa banca.
In breve, nel 2014 a Pechino si svolse una cerimonia di insediamento della Banca a cui parteciparono, oltre alla Cina e all’India, la Tailandia, la Malesia, Singapore, le Filippine, il Pakistan, il Bangladesh, il Brunei, la Cambogia, il Laos, la Birmania, il Nepal, lo Sri Lanka, l’Uzbekistan e la Mongolia. Significative anche le firme del Kuwait, dell’Oman e del Qatar a cui si aggiunse nel 2015 anche quella della Giordania e dell’Arabia Saudita, nonché del Tagikistan e infine del Vietnam. Nel 2015, poi, anche la Nuova Zelanda, l’Arabia Saudita e l’Inghilterra hanno aderito alla Banca.
Orbene, qui nasce un grande problema, o meglio, pubblicamente si manifesta. Il Vietnam aderisce anche al Trans-Pacific Pact che gli Stati Uniti, com’è noto, hanno siglato in funzione anticinese con i Paesi asiatici e sudamericani rivieraschi del Pacifico, ed escludendo da esso la Cina, con un chiaro atto intimidatorio e di sfida politica, militare e diplomatica. Ebbene il Vietnam, in questo modo, afferma una politica dei due forni seguendo l’esempio tailandese, più che secolare, di alleanze molteplici a geometria variabile atte a garantire la propria indipendenza. Ma la notizia straordinaria è quella dell’adesione della Nuova Zelanda, che aspira sempre più manifestamente a una politica differenziata rispetto all’Australia, che non a caso nel contesto del Trans-Pacific Pact ha firmato con gli Stati uniti un accordo militare in funzione anticinese e dichiaratamente pro giapponese.
Ma la notizia bomba è quella dell’adesione dell’Inghilterra. Cameron e Osborne, primo ministro e ministro degli Esteri, sono stati chiari come del resto The Telegraph aveva annunciato, sin da subito, asserendo che il Regno Unito, in primo luogo, ha di mira i suoi interessi nazionali. Questo è il problema. Un problema che ha avuto i suoi risvolti nel contesto della NATO in cui il Regno Unito ha diminuito i suoi investimenti in armamenti portandoli sotto il tetto del 2%, soprattutto in armi convenzionali, mentre invece, di contro, aumentava la sua spesa difensiva sul fronte nucleare missilistico, in terra, in cielo, in mare.
Il Regno Unito, insomma, si sta sempre più allontanando dall’Europa. Guarda invece sempre più al mondo e in primo luogo all’Asia e, con atteggiamento più incerto, all’Africa. Per questo sono sbagliate le valutazioni di alcuni infermi osservatori che sostengono che il Regno Unito si sta sempre più isolando. Si sta sempre più isolando dall’Europa deflazionistica, germanico-teutonica, antirussa. È il trionfo postumo della Thatcher, che fu costretta a dimettersi dal suo stesso partito perché non credeva nell’accrocchio di un euro costruito a immagine del marco.
Naturalmente questa decisione inglese avrà conseguenze devastanti in Europa, perché la Francia, da sola, non osa opporsi alla Germania e l’Europa del sud è profondamente infetta dall’ideologia blairista e neoliberista che altro non è che l’altra faccia dell’ordoliberalismus tedesco. Il Regno Unito abbandona l’Europa per ritornare a essere una potenza mondiale intracontinentale. Per far questo, sceglie di allearsi con la Cina in una prospettiva di lungo periodo, ampliando così il solco che via via dalla crisi di Suez del ‘56 sempre più lo divide dagli USA.
Questi ultimi hanno reagito alla decisione del Regno Unito di far parte dell’AIIB in modo convulso, come al solito nervoso, indispettito e privo di lungimiranza strategica. In ogni caso è indubbio che la ferita è profonda e l’incapacità egemonica degli USA in quest’occasione è apparsa in modo preclaro e drammatico. Tutte le famiglie politiche degli USA sono in preda al caos e la divisione tra USA e Regno Unito non potrà che rafforzare la Cina e, di fatto, anche la Russia con conseguenze inaspettate anche nel Mediterraneo. Si ricordi infatti l’adesione alla nuova Banca di Paesi come la Giordania, l’Arabia Saudita, l’Oman, il Qatar! Una chiara dichiarazione di guerra diplomatica agli USA impegnati in trattative sul nucleare con l’Iran.
Da ultimo, non posso non ricordare che questa divisine tra USA e Regno Unito non potrà non avere conseguenze drammatiche anche in Italia, Paese a sovranità limitata e verso cui il Regno Unito aveva avuto dagli USA la delega di occuparsi dei suoi esiti governativi e oltre, com’era stato reso manifesto dalla non lontana visita privata (sic!) della regina Elisabetta e del suo consorte all’allora presidente Giorgio Napolitano. Caso unico al mondo di visita privata di un monarca a un presidente della Repubblica. Se anche Netanyahu sarà sconfitto, anche l’influenza israeliana sulla politica italiana non potrà non subire pesanti modificazioni.
Mi si dirà che questi son dettagli rispetto al caos mondiale. Ma a questi detrattori rispondo che con l’ISIS alle porte le sorti dell’Italia sono il destino di uno dei pianeti fondamentali che illuminano il cielo della civiltà umanistica mondiale.

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