PETROLIO
LOW COST, LE CAUSE, GLI EFFETTI E PERCHÉ NON POTRÀ DURARE
Il
petrolio non è una commodity particolare, è la numero uno perché il mondo in cui
viviamo è scaturito dal suo sfruttamento; una società ed un'economia si
sviluppano sopra ad una piattaforma energetica e il capitalismo moderno poggia
sul petrolio.
Uno
degli eventi più rilevanti del 2014 è stata la caduta del suo valore avvenuta
nel secondo semestre. Più che il termine “caduta” andrebbe utilizzato quello di
“crollo”, poiché dal valore di 116,7 dollari al barile di giugno 2014 si è
passati a 58 dollari l’ultimo giorno dell’anno. Nei primi giorni del 2015 la
discesa non si è arrestata sfondando la soglia dei 50 dollari (oggi il greggio
WTI è appena sopra ai 44 $/b, ndr).
Perché
questo crollo? All’inizio tutti avevano dato la colpa all’Arabia Saudita,
responsabile (a fine ottobre), di un abbassamento dei listini di vendita in
Nordamerica, ma non di quelli asiatici, con lo scopo di colpire i produttori
statunitensi; quanto meno questa era la tesi dell’accusa. Perché gli USA? Perché
negli ultimi anni negli Stati Uniti si è verificata una vera e propria
rivoluzione in campo energetico con un boom nelle tecniche estrattive non
convenzionali (alternative al classico giacimento a pozzo) sia per estrarre
petrolio che gas (ossia shale gas e shale oil).
È
stato nel corso del 2013 che è apparso evidente un cambiamento strutturale nel
mercato petrolifero: a giugno gli Stati Uniti avevano esportato 7,3 milioni di
barili al giorno, ben 1,2 milioni in più rispetto allo stesso mese del 2012, un
incremento equivalente all’intera offerta di un Paese come l’Algeria, superiore
a quello di Ecuador e Qatar. Non si capisce bene per quale motivo, ma gli
esperti del settore si attendevano una reazione dell’OPEC che non si è
manifestata. Riyad, alla relativa conferenza di fine novembre, aveva fatto
approvare la linea di fermezza: nessun taglio produttivo per sostenere il prezzo
del greggio. Nelle settimane successive altri scrissero che il gioco in realtà
era combinato e che il vero obiettivo del ribasso era la Russia di Putin che
certamente ha subito e sta subendo un danno economico pesantissimo, come
testimonia la caduta del rublo e l’aumento dei tassi di interesse sui titoli di
Stato.
Ma
allora qual è il vero motivo del crollo? Il prezzo del petrolio è influenzato da
molti fattori, ma alla base permane l’interazione fra domanda e offerta e i dati
mettono in chiaro una cosa: l’offerta è cresciuta più della domanda e oltretutto
la domanda appare debole per una situazione economica che non dà indicazioni di
un ritorno a stagioni di crescita come nel passato. Le stime sono negative e nel
2015 gli economisti scommettono solo sulla crescita dell’economia americana,
l’Eurozona è ferma, il Giappone pure e la Cina sembra un treno sempre più in
fase di decelerazione (queste anche le previsioni del famoso economista
Roubini).
Nel
2014 la domanda petrolifera è aumentata di un esiguo 0,7%, toccando 91,15
milioni di barili al giorno (fonte OPEC). Sempre di un aumento si tratta, certo,
ma del più basso da 5 anni a questa parte e gli ultimi cinque anni non sono
stati di vacche grasse! Per i Paesi OCSE la parola da usare è diminuzione perché
la domanda è calata dello 0,9%. I prezzi bassi per i prodotti energetici sono un
fatto positivo, ma non se lo sono per effetto di una crisi economica e questo
spiega perché il crollo del petrolio non ha dato entusiasmo alle Borse, anzi le
ha depresse.
L’offerta
è invece aumentata del 2%, un valore maggiore dell’aumento medio degli ultimi
cinque anni ed è salito a 93,2 milioni di b/g. Sintetizzando con le parole di
Leonardo Maugeri, grande esperto del settore, “la capacità produttiva mondiale
di petrolio è cresciuta troppo, mentre la domanda ha continuato a crescere
troppo poco” [Espresso, 15 novembre 2014].
Chi
ha aumentato la produzione? Gli storici Paesi OPEC? Per niente. La loro
produzione è rimasta ferma. L’83% dell’aumento produttivo globale è da imputare
ad un solo Paese: gli Stati Uniti. L’OPEC nel 2014 ha difeso la propria quota di
mercato. L’Arabia Saudita sta banalmente affidando al libero mercato la
fissazione del prezzo, come dire: c’è troppo petrolio? Che scenda il prezzo,
così aumenteranno i consumi e ad uscire fuori mercato saranno i produttori più
costosi! In perfetta coerenza con le leggi dell’economia di mercato che abbiamo
esportato nel mondo. E gli USA negli ultimi tre anni hanno aumentato la
produzione di 3,6 milioni di barili/giorno, riducendo drasticamente le
importazioni, facendo cioè sparire l’equivalente di 100 superpetroliere al
mese.
Chi
sta soffrendo? Praticamente tutti i produttori che vedono tagliati i loro ricavi
e si ritrovano a vendere sottocosto. Il prezzo del petrolio di un Paese non
dipende banalmente dal costo di estrazione. Per la maggior parte dei
“petro-Paesi” questa commodity costituisce la fonte primaria di entrate e su
tali stime vengono scritti i bilanci statali.
Se
parliamo di costi di estrazione in Medio Oriente siamo sotto i 40 dollari con
pozzi di molto al di sotto di questo valore; altrove i costi aumentano e sotto i
50 dollari per la quasi totalità si tratta di sottocosto o al limite di costo
senza margini nel caso dei giacimenti migliori. Fuori costo lo shale americano,
per il quale si stimano 65 dollari al barile, e ancor più quello canadese
estratto da sabbie bituminose.
Passando
ai bilanci statali la musica cambia e nessun paese si salva, neppure il Qatar e
l’Arabia Saudita, che si prevede possa accumulare un deficit nel 2015 di 50
miliardi di dollari, ma le riserve del Paese sono talmente ingenti da poter
garantire due o tre anni di inerzia. Riyad ha fatto bene i propri calcoli
comprendendo di essere il Paese in grado di resistere più a lungo al ribasso. I
più colpiti sono Iran (guarda caso storico nemico dell’Arabia), Venezuela,
Algeria, Nigeria, Ecuador, Russia e Iraq.
Chi
sta sorridendo? Gli automobilisti, perché risparmiano denaro e quello che sta
accadendo equivale ad una grande manovra di stimolo che oltretutto colpisce a
tappeto, favorendo anche le classi sociali più basse, quelle che un aumento di
stipendio se lo sognano e che sono sempre sfavorite nelle politiche fiscali.
Anche in Italia sta accadendo, nonostante sui carburanti sia applicato un carico
fiscale enorme che spiega perché un calo della materia prima del 50% non potrà
mai tradursi in analogo sconto sul costo finale: la materia prima nel 2013
valeva solo il 32% del prezzo finale del carburante.
Gli
economisti valutano un aumento del PIL dello 0,6% per il nostro Paese per
effetto del calo-petrolio e la bolletta energetica nazionale, già scesa
globalmente di 11 miliardi di euro nel 2014 [stime Unione Petrolifera], si
prevede calerà di altri 6-7 miliardi nell’anno corrente.
Tornando
a guardare oltre confine, quasi unanime è la convinzione che siano sempre gli
USA a vincere ma non è così scontato, poiché se da un lato carburanti a buon
mercato (e in America lo sono più che altrove per le basse tassazioni) sono
indubbiamente un forte stimolo all’aumento dei consumi interni e alla produzione
industriale, d’altro canto è forte l’impatto negativo sulla nuova industria
petrolifera e sono alti i rischi finanziari per la grande mole di investimenti
nelle imprese dello shale oil che potrebbero andare in bancarotta.
Quanto
durerà il calo? Ci sarà in seguito un rimbalzo o il prezzo si stabilizzerà su un
nuovo valore? A tutti piacerebbe saperlo! Per fermare la caduta occorrerebbe un
aumento della domanda superiore all’esiguo valore previsto dall’Agenzia
Internazionale (+0,9 milioni di barili al giorno). Oppure un drastico calo di
offerta. Entrambe le soluzioni non hanno chance di materializzarsi in tempi
rapidi, ma lasciato a se stesso il mercato sta colpendo il petrolio più costoso
da estrarre (e peggiore anche in termini di impatto ambientale). Col perdurare
di questi prezzi le estrazioni di shale oil in Nordamerica non potranno che
diminuire, ma non accadrà a breve per la natura stessa di questo settore.
Quello
che appare probabile è che più proseguirà la discesa, minore sarà il periodo
low-cost perché nel caso di crollo sotto i 40 dollari, i tagli agli investimenti
saranno rilevanti e il ridimensionamento della capacità produttiva più
rapido.
Nel
frattempo però sarà tempesta con molteplici effetti. Ne risentiranno i negoziati
sul clima? Si sa che prezzi bassi per le fonti fossili spingono al consumo e non
al risparmio (in Italia i consumi di carburante nel mese di dicembre 2014 sono
aumentati del 4,2% rispetto allo stesso mese del 2013). Ci sarà instabilità nei
Paesi più colpiti dal calo petrolio? Certamente per Russia, Venezuela, Algeria e
altri ci sono molti rischi.
Effetti
sulle rinnovabili? Qui meno di quanto si possa immaginare, perché le fonti
rinnovabili sono ad uno stadio di sviluppo avanzato: dal 2007 ad oggi
l’evoluzione è stata rapida e dopo la stasi del biennio recente si prevede un
nuovo slancio e inoltre solo il gas interessa la generazione elettrica, settore
dove maggiore è la loro penetrazione.
Qual
è dunque la morale? Nessuno è oggi in grado di influenzare il prezzo del
petrolio, né l’Arabia, né gli Stati Uniti poiché l’industria petrolifera a
stelle e strisce non è un’industria di Stato. Lo sconquasso in atto ci dice che
il mondo cambia più rapidamente di quanto gli esperti sappiano immaginare e non
è sufficiente studiare il passato per prevedere il futuro. La fame di energia
dell’Asia non è infinita e il loro sviluppo non sarà la fotocopia del nostro
perché rinnovabili ed efficienza sono ad uno step evolutivo ben diverso rispetto
a quelli dei nostri tempi di sviluppo. Petrolio e gas di scisto non hanno
inaugurato una nuova stagione dell’abbondanza, ma hanno solo reso accessibili
risorse conosciute grazie al prezzo elevato del greggio e solo a tale prezzo
avranno ancora chance.
Il
legame sempre più stretto fra le economie del mondo fa sì che non esistano più
solo effetti positivi per qualcuno e negativi per un altro (eccetto che per quei
Paesi che nel gioco non sono ancora integrati). Nessun Paese può considerarsi
esente da danni e deve farsi strada la consapevolezza, fra chi governa, che
essere sullo stesso pianeta e alimentarsi delle stesse risorse impone una
politica globale di collaborazione se si ha come obiettivo la sicurezza, la
difesa del clima e una vita decente per tutti.
La
nuova bonanza dell’oro nero non durerà molto, un anno sì, difficilmente andrà
oltre il 2015, il riequilibrio di domanda e offerta riporteranno i prezzo sui
valori corrispondenti ai costi produttivi e, guardando oltre l’orizzonte, tali
costi non potranno che aumentare per il semplice fatto che serve energia per
estrarre petrolio, ne servirà sempre di più, e l’energia costa! La strada più
virtuosa che possiamo perseguire è quella di continuare a ridurre la quantità di
petrolio che ci serve, per liberarci dai vincoli politici con i paesi
produttori, per ridurre l’inquinamento e per proteggere il clima.
Come
ha ricordato uno
studio recente pubblicato sulla rivista Nature [vedi anche nota sotto]: se
vogliamo preservare il clima, e con esso la produzione agricola e quindi la
nostra stessa sopravvivenza, dovremo lasciare sotto terra, sotto il ghiaccio e
sotto gli oceani una bella fetta di fossili per non rilasciare in atmosfera in
pochi anni quello che madre natura ha concentrato nei fossili nel corso dei
secoli. E dovremo abbandonare lo sfruttamento dei giacimenti più “sporchi”, come
le sabbie bituminose in Canada e il petrolio (e il gas) di scisto.
Se
l’Occidente vuole difendere la libertà deve riempirla di contenuti e fra questi
ci deve essere il rispetto per l’aria, l’acqua e la terra, premessa
indispensabile per offrire concretamente una vita dignitosa agli esseri umani;
la libertà di distruggere in nome del diritto alla ricchezza, non è libertà ma
violenza.
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