HANNO
SVENDUTO TUTTO, ANCHE IL TEMPO
di
Serge Latouche
Il
filosofo e sociologo Jean
Baudrillard, in alcune delle sue opere più importanti, ha puntato il suo
sguardo iconoclasta sul funzionamento simbolico del mondo occidentale. In
particolare, si è messo a osservare il miracolo dell’acquisto, davanti al quale
si prosternano i consumatori. Il credito, che sembra avere un’assonanza con il
magico, ha sconvolto la percezione e la gestione del nostro tempo. Prima della
sua comparsa, l’acquisto era preceduto dal risparmio, per cui doveva trascorrere
un periodo di faticoso lavoro, spesso lungo e doloroso, prima che fosse
possibile disporre dei mezzi finanziari atti a soddisfare i bisogni seri, per
esempio l’acquisto dei mobili. Bisognava produrre prima di consumare! Con la
monetizzazione delle economie e lo sviluppo del credito, la logica si è invece
ribaltata e l’immediatezza è stata innalzata a nuovo imperativo sociale: «Non si
deve più rimandare il piacere!».
I
nuovi oggetti hanno imposto il proprio ritmo agli esseri umani, mentre prima era
l’uomo che imponeva il proprio agli oggetti. «Per secoli – ha scritto
Baudrillard [«Il sistema degli oggetti», Bompiani, 2003] – si sono succedute
generazioni in un ambiente stabile di oggetti, mentre oggi sono le generazioni
di oggetti che si succedono a un ritmo accelerato in una stessa esistenza
individuale». E conclude così: «Il sistema del credito porta al colmo
l’irresponsabilità dell’uomo nei confronti di se stesso: chi acquista aliena chi
paga, anche se si tratta della stessa persona; ma attraverso il suo scarto di
tempo il sistema fa sì che non se ne prenda coscienza».
D’altronde,
il credito si era già conquistato altri territori, fino a quel momento protetti
dalle tradizioni. Una feroce «selezione artificiale» è infatti avvenuta tra gli
agricoltori e gli allevatori: i più forti, i più atti a sopravvivere, vittime
consenzienti di un nascente produttivismo, si sono lanciati verso un illusorio
arricchimento abbondantemente alimentato dai debiti, mentre sono scomparsi i più
deboli, ancora legati a pratiche ancestrali. Le banche commerciali invece
detenevano da tempo il potere esorbitante di creare denaro ex nihilo. «Sono i
crediti a fare i depositi», affermavano orgogliosamente i banchieri, valutando
insufficienti, per far funzionare la macchina dei consumi, le risorse messe a
disposizione dal risparmio, avevano infatti ribaltato a proprio vantaggio la
relazione iniziale, nella quale erano i depositi che alimentavano i crediti. La
quantità di denaro circolante, determinante per le fluttuazioni dell’attività
economica e l’andamento dei prezzi, dipendeva da decisioni private prese al di
fuori di ogni dibattito democratico. «Tout pour le peuple, rien par le peuple!»
[tutto per il popolo, niente dal popolo] aveva denunciato Bernard Charbonneau,
pensatore e filosofo, precursore dell’ecologia politica [Daniel Cérézuell,
«Écologie et liberté. Bernard Charbonneau, précurseur de l’écologie politique»,
Parangon, 2006]. La moltiplicazione degli scambi commerciali su scala
planetaria, che annunciava la globalizzazione, non era dunque intralciata da
alcuna scarsità di denaro. La macchina capitalista si stava dotando di un nuovo
strumento, un motore potente per la sua irresistibile espansione. La crescita
veniva così stimolata grazie a una proliferazione di debiti riconosciuti e
sottoscritti da popoli le cui capacità di resistenza erano ormai anestetizzate,
ma le cui risorse non dovevano sfuggire alla megamacchina. La spirale infinita
della compulsione e del miracolo dell’acquisto perseverava nella sua
instancabile opera di trasformazione del denaro in feticcio.
La
moneta, in origine strumento di intermediazione negli scambi e unità di conto,
era fin lì servita a facilitare le relazioni commerciali tra gli uomini. Questa
funzione primaria era ora messa seriamente in discussione dall’ampliamento delle
disparità sociali. Il sistema finanziario autorizzava infatti i più audaci e i
meno scrupolosi a fare soldi con i soldi. Se in certe aree del mondo c’erano
esseri umani che vivevano con uno o due dollari al giorno, in altre c’era chi
accumulava notevoli ricchezze, abbondantemente irrorate con stock options o
fornite di paracaduti dorati. Ricchezze riciclate esclusivamente in bolle
speculative che scoppiavano al minimo inciampo della congiuntura, provocando
crisi spaventose del sistema e spingendo l’economia mondiale sull’orlo
dell’abisso.
La
rinuncia al controllo dei movimenti di capitale, favorito dalla regola
ultraliberale delle tre D [deregulation, disintermediation,
decompartmentalization], ci costringeva ad ammettere che non poteva esistere
capitalismo senza crisi finanziaria. Il baco della delinquenza finanziaria era
penetrato nella mela capitalista e la rodeva inesorabilmente fino a farla
marcire. Gli scandali finanziari a ripetizione [Enron, Parmalat e più di recente
Bernard Madoff], la compravendita di società [LBO, sistema di leverage buy-out],
trasformavano le imprese in puri strumenti finanziari atti al rapido
arricchimento dei loro proprietari.
Davanti
alla sterminata potenza della finanza internazionale, le «risorse umane» [gli
esseri umani trasformati in strumenti di lavoro] erano ridotte alla voce
semplice e volgare di costo di produzione. Veri imprenditori si trasformavano in
delinquenti dal colletto bianco, insolenti macchine per calcolare i profitti
distribuiti agli azionisti. Qualcuno si è allora ricordato delle parole di John
Maynard Keynes a proposito del denaro: «L’amore per i soldi come mezzo per
procurarsi i piaceri e i beni della vita sarà riconosciuto per quello che è: uno
stato morboso piuttosto ripugnante, una di quelle inclinazioni a metà criminali
e a metà patologiche per curare le quali ci si affida, rabbrividendo, agli
specialisti di malattie mentali» [«Trattato sulla moneta», Feltrinelli, 1971].
Keynes, uno dei rarissimi economisti che aveva letto Freud, aveva capito bene
quali segnali mortiferi dell’inconscio si celassero dietro all’attaccamento per
il denaro.
1967:
la petroliera Torrey Canyon naufraga al largo della Cornovaglia. Diversi milioni
di tonnellate di petrolio viscoso ricoprono le coste inglesi e quelle della
Bretagna. La marea nera provoca uno shock e risveglia una nuova coscienza
ecologica, che sarà rafforzata dal progetto di ampliare un campo militare nella
piana di Larzac nel 1974 e dall’inquinamento alla diossina di Seveso nel 1976.
In questo contesto, il potere politico francese presenta l’energia nucleare come
il rimedio alla crisi energetica. I francesi non hanno petrolio, ma qualche idea
se la sono fatta! Il nucleare fa paura e preoccupa la parola «centrale», alla
quale è sempre più spesso accoppiato. Tuttavia, la tecnocrazia impone la propria
decisione senza alcuna consultazione democratica.
Sulla
scena fa così la sua comparsa un’ecologia politica sovversiva. Nonostante la
loro prossimità semantica, ecologia ed economia si scontrano vigorosamente e,
malgrado la sconfitta del Maggio ‘68, il capitalismo non è forse così
invulnerabile come sembra. I sociologi analizzano scrupolosamente la nuova
contestazione di stampo antiproduttivista, che è ben distante, come la sua
cugina femminista, dalla contraddizione tra capitale e lavoro; e parlano con
entusiasmo di quei «nuovi movimenti sociali», alternativi, creativi, il cui
modello culturale volta le spalle al vecchio mondo. A metà degli anni Settanta,
però, si apre una parentesi: si ripresenta la crisi economica e la curva della
disoccupazione si impenna. Il sogno deve cedere il passo al realismo, al
pragmatismo. Con una fuga in avanti in un mondo finanziario sempre più virtuale
dopo l’abbandono dell’ultimo rapporto tra dollaro e oro nel 1971, il sistema
riesce a prolungare l’illusione statistica della crescita. In questo periodo,
l’ideologia neoliberale traccia inesorabilmente il proprio solco: meno Stato,
più concorrenza, meno regole, più libertà selvaggia, meno tutele e
protezionismo, più scambi.
Trionfa
la globalizzazione, mostrando ben presto il proprio volto autentico: maggiore
sfruttamento dell’uomo e della natura, finanziarizzazione dell’economia,
deregulation, delocalizzazioni, esclusioni, deterioramento dei legami sociali,
uniformazione culturale, occidentalizzazione del mondo, degrado del clima e del
suolo, deforestazione, desertificazione... La crisi sociale e quella ambientale
ci colpiscono come un boomerang alla fine del XX secolo. Il tempo che ci resta è
ormai contato e l’umanità si trova davanti a un muro. Il motore dell’economia si
è imballato: siamo andati troppo in fretta e troppo avanti. Il fiume
dell’economia è tracimato dagli argini e minaccia di travolgere ogni cosa. Una
decelerazione è più che auspicabile: è indispensabile per la sopravvivenza.
Dobbiamo rallentare, modificare il nostro rapporto con il tempo, cambiare ritmo.
È suonata l’ora della decrescita!
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