Maldini: 'Niente politica con Berlusconi'
29 dicembre alle 17:00
Intervista a 360 gradi all'ex capitano rossonero. "Io escluso, ma indipendente". Il rapporto con Berlusconi, il disinteresse per la politica, le valutazioni sulla fase attuale del calcio italiano e sul momento della squadra della sua vita.
Maldini, l'esilio di una bandiera: "Che amarezza il Milan senza magia".
La casa di Paolo Maldini non è lontana dallo stadio della sua vita: quando c'è la partita, il frastuono delle auto e delle moto dirette a San Siro si può sentire un po' ovattato, se si porge l'orecchio alla processione pagana, che sfiora inconsapevole la tana dell'eroe di un tempo ancora molto vicino. Oggi non è giorno di partita e nemmeno di scuola e di lavoro. Nel salone bianco, dove non c'è traccia ostentata del fresco passato di uno dei più grandi campioni del calcio italiano, l'imprenditore Maldini ne parla con amore intatto e senza malinconia, mentre i figli Christian e Daniel s'affacciano a salutare. E' quello che appare: un uomo di 44 anni, realizzato e soddisfatto di se stesso e della propria famiglia, un ex calciatore famoso che non ha bisogno del calcio per vivere. E' assai più probabile che il calcio italiano, in crisi tecnica e etica, abbia bisogno di lui. Invece, tre anni e mezzo dopo Fiorentina-Milan del 31 maggio 2009, il suo passo d'addio, continua lo spreco di un fuoriclasse che gli altri ci invidiano anche per l'intelligenza e l'immagine.
NIENTE POLITICA
Maldini, è vero che lei si candiderà per le elezioni politiche nel partito di Berlusconi?
"Io parlo poco, da quando ho smesso di giocare, e in quelle poche occasioni spero di essere chiaro. Eppure ogni tanto escono notizie false. Non è assolutamente vero. Non ho mai ricevuto proposte. Berlusconi, dal 2009 a oggi,
Maldini, l'esilio di una bandiera: "Che amarezza il Milan senza magia".
La casa di Paolo Maldini non è lontana dallo stadio della sua vita: quando c'è la partita, il frastuono delle auto e delle moto dirette a San Siro si può sentire un po' ovattato, se si porge l'orecchio alla processione pagana, che sfiora inconsapevole la tana dell'eroe di un tempo ancora molto vicino. Oggi non è giorno di partita e nemmeno di scuola e di lavoro. Nel salone bianco, dove non c'è traccia ostentata del fresco passato di uno dei più grandi campioni del calcio italiano, l'imprenditore Maldini ne parla con amore intatto e senza malinconia, mentre i figli Christian e Daniel s'affacciano a salutare. E' quello che appare: un uomo di 44 anni, realizzato e soddisfatto di se stesso e della propria famiglia, un ex calciatore famoso che non ha bisogno del calcio per vivere. E' assai più probabile che il calcio italiano, in crisi tecnica e etica, abbia bisogno di lui. Invece, tre anni e mezzo dopo Fiorentina-Milan del 31 maggio 2009, il suo passo d'addio, continua lo spreco di un fuoriclasse che gli altri ci invidiano anche per l'intelligenza e l'immagine.
NIENTE POLITICA
Maldini, è vero che lei si candiderà per le elezioni politiche nel partito di Berlusconi?
"Io parlo poco, da quando ho smesso di giocare, e in quelle poche occasioni spero di essere chiaro. Eppure ogni tanto escono notizie false. Non è assolutamente vero. Non ho mai ricevuto proposte. Berlusconi, dal 2009 a oggi,
cioè dalla mia ultima partita a San Siro, l'ho visto soltanto alla festa dei suoi 25 anni di presidenza. Poi non l'ho mai più sentito. Inoltre, anzi soprattutto, entrare in politica non è una mia aspirazione".
Il calcio ai calciatori e la politica ai politici.
"Ma no, i calciatori sono uomini come gli altri, e magari possono essere particolarmente sensibili a certe problematiche. Solo che a me la politica non interessa".
Alcuni suoi ex compagni, come Kaladze in Georgia, Shevchenko in Ucraina e Weah in Liberia, sono diventati politici.
"Ma loro rappresentano dei simboli, nei rispettivi paesi, paesi con situazioni particolari. L'Italia è, o dovrebbe essere, un paese con una democrazia un pochino più solida".
Lei, invece, è certamente un simbolo del Milan. E' soltanto perché Berlusconi non l'ha più chiamata che lei non è ancora entrato nel club?
"No. E' perché il Milan, giustamente, fa le sue politiche: le decidono il presidente e la dirigenza ed è normale che sia così".
Però sono già passati 3 anni e mezzo dal suo ritiro: in questo modo non rischia ormai un futuro lontano dal calcio?
"Sì, ma la cosa non mi spaventa. Ho fatto così tanto, nel calcio, che nulla mi toglierà mai quello che c'è stato per 31 anni, da quando cominciai nel settore giovanile del Milan. Il "rischio" di restare fuori dal mondo del calcio, oggettivamente, esiste. Io ho avuto un passato e un legame così forte col Milan che è difficile immaginarmi dentro un'altra realtà, anche europea: le possibilità si assottigliano".
Elenchiamole.
"Con una premessa indispensabile, però. Io non mi sto offrendo al Milan. Io faccio l'imprenditore nel settore immobiliare, ho iniziato quando ancora giocavo e ho ormai un'attività avviata, fuori dal calcio. Se però parliamo di calcio e di quale ruolo potrei avere nel calcio, io rispondo alle domande".
Allenatore?
"Mai preso in considerazione, perché ho visto mio padre e la vita da nomade che faceva. Non fa per me. E poi, se uno fa l'allenatore, deve aprire a tutte le possibilità, come ha fatto legittimamente Leonardo: non può pensare di allenare solo il Milan. Perciò, visto che io non penso di potere lavorare in un altro club italiano, le possibilità che io alleni sono pari allo zero. E in un altro paese poco di più".
Rimane l'incarico dirigenziale.
"Non mi piace la politica, quindi dovrebbe essere qualcosa di legato al calcio in senso stretto".
Cioè?
"Io posso portare la mia conoscenza calcistica: la valutazione dei calciatori e un'esperienza che ho acquisito nella mia lunga carriera. Io credo di avere vissuto tutta l'evoluzione del calcio moderno, quindi sì, potrei fare il dirigente. Nel calcio non è che abbondi la gente competente al 100%. C'è chi si è inventato il lavoro, ma non sempre trovi chi sa di tattica, di calciatori, di psicologia calcistica. Gli anni da capitano del Milan, dal '97 in poi, mi sono serviti tanto. L'ho fatto anche in Nazionale, dal '94 al 2002, ma è stato diverso: in Nazionale gestisci l'evento, nel club la quotidianità. E impari tantissimo".
La Figc, la Fifa o l'Uefa?
"Non ci ho mai pensato sul serio. Un ruolo tanto per averlo o un incarico di rappresentanza non mi interessano".
UNA RISORSA SPRECATA
Intanto lei è una risorsa inutilizzata: non si sente uno spreco?
"Bisogna vedere se io vengo visto come una risorsa o come un problema. Vuole che le dica che cosa mi dà veramente fastidio?".
Prego.
"Parliamo del Milan, perché io ho avuto la fortuna di partecipare a 25 anni splendidi. Beh, quando sono arrivato, io ho trovato già una grande base per costruire una grande squadra: grandi calciatori e grandi persone. Berlusconi è arrivato e ci ha insegnato a pensare in grande. Certo, con gli investimenti, perché comprava i migliori. Ma lui ci ha messo la mentalità nuova, soprattutto: Sacchi e l'idea che il club dovesse diventare un modello per il tipo di gioco, per le vittorie. Insomma, si è creato veramente qualcosa di magico, grazie alla personalità di chi già c'era e di chi è arrivato".
Poi?
"Poi, a poco a poco, questo si è perso e il Milan si è trasformato, da squadra magica, in una squadra assolutamente normale. E sa perché? Perché - a differenza di tanti grandi club europei con un passato simile, tipo Real, Barcellona e Bayern, dove chi ha scritto la storia della squadra è andato a lavorare lì per trasmettere ai giovani quello che aveva imparato - nel Milan la società stessa ha smesso di trasmettere quel messaggio, al di là degli investimenti. All'interno del Milan attuale non c'è nessuno, tra quelli che ne hanno fatto la storia, ad avere un ruolo non marginale".
Il paragone è col Bayern?
"Esatto, ma non solo. Guardi la storia del Bayern e del Real e i ruoli che hanno avuto nel tempo Beckenbauer, Hoeness, Rummenigge, Butragueño, Gallego, Valdano. Anche ai nuovi che arrivano, questa guida e questa magia sono più facili da trasmettere attraverso chi l'ha provata e anche creata. Il Milan è sempre stato una grande squadra, anche ai tempi di mio padre. Ma la grande magia c'è stata per 25 anni. Poi s'è persa".
E' un processo irreversibile?
"Valutare la programmazione di questo Milan è difficile. In estate sono andati via 12 giocatori di grande personalità e non mettere in conto un inizio di stagione complicato mi sembra non programmare il futuro e aspettare il mercato invernale. Dove di affari veri, in genere, se ne fanno pochi".
Galliani, però, ha spiegato spesso che era tutto previsto e che questo è l'anno 1.
"Io vedo sinceramente poca programmazione. Magari mi sbaglierò, ma certe scelte di giocatori, anche se a parametro zero, sono lontane dall'idea di un programma studiato".
Berlusconi ha appena parlato di una nuova politica, basata solo sugli Under 22.
"Quelli davvero bravi costano dai 20 milioni in su e non ce ne sono tanti. Abbassare il monte ingaggi e ringiovanire la rosa è fondamentale, d'accordo. Ma la valutazione dei giocatori non so da chi venga, visto che Braida fa sempre meno quel lavoro".
Ci si affida sempre a un procuratore di riferimento, come Raiola.
"E' la logica degli ultimi anni. Le racconto una cosa. Gli ultimi due allenatori hanno cercato di portarmi dentro. Leonardo mi voleva a Milanello: "Anche senza fare niente - mi diceva - solo con la tua presenza". Ma io gli risposi che non aveva senso presentarmi a Milanello senza un ruolo".
Lei avrebbe fatto il direttore sportivo?
"Galliani, in presenza di Leo, mi disse che il ds è una figura non esiste più e che il Milan era a posto in quel ruolo. A me sembra invece che ci sia carenza".
LA CHIAMATA DI ALLEGRI
E Allegri?
"Allegri, l'anno scorso, mi disse che aveva bisogno di qualcuno che controllasse anche lui: "Paolo, chi mi dice se ho sbagliato qualcosa anche tatticamente e nella gestione dello spogliatoio, che ricade solo su di me?". Gli serviva uno che avesse la personalità per parlare con i giocatori importanti - con Ibra, con Boateng, con altri - in modo autorevole. E lui pensava che io, col mio passato, potessi farlo".
Può raccontare i dettagli di quella proposta?
"Max mi chiamò quando ero in vacanza negli States, dicendomi appunto che mi voleva parlare, perché aveva bisogno di me per gestire il gruppo. Ci siamo visti, ci siamo sentiti al telefono e io lo avvisai che questo avrebbe potuto rappresentare un problema per lui. Allegri mi disse che aveva parlato con la società e che sembrava tutto ok. Poco dopo, via sms, mi scrisse che mi avrebbe chiamato entro pochi giorni. Era l'ottobre del 2011, non l'ho più sentito. Io non ho mai cercato nessuno, lo ripeto. E' stato sempre il contrario".
Qual è oggi il suo sentimento verso il Milan?
"Mi capita di ripensare al passato. Eravamo coscienti del nostro ruolo. I giocatori facevano i giocatori, i dirigenti i dirigenti. Ognuno si prendeva le proprie responsabilità, senza ingerenze. C'era talmente tanta conoscenza della materia calcio a livello globale... Solo uno stupido non assorbe nozioni dal lavoro che fa e noi eravamo proprio una squadra".
La sensazione comune è che Galliani non la voglia.
"Può darsi. E' il dirigente che ha vinto di più ed è anche legittimo che faccia le sue scelte e si scelga i collaboratori in cui crede. Ma vorrei sfatare la diceria che io sarei uno della famiglia. Non è vero: non mi vogliono così spasmodicamente".
Quindi il sentimento è di delusione?
"Direi di amarezza, e non solo mia. Amarezza perché tutto quello che si è creato insieme si è dissolto. E' la stessa sensazione di molti miei ex compagni. Non è scontato che si crei la magia che noi abbiamo vissuto. Ecco, io, vorrei restituire, tutto qui. Ho dato più di qualsiasi altro nella storia del Milan, ho giocato più partite di tutti. Ma sento che quello che ho ricevuto è ancora di più. Sento un debito di riconoscenza".
Ne ha mai parlato con Berlusconi?
"Lo dissi al presidente prima di smettere. L'aspetto economico non è una leva che può fare effetto su di me. Il lavoro di ognuno di noi va pagato nella giusta maniera, ma non è quello a decidere. E neanche può contare lo stare sotto i riflettori: io ho avuto anche troppa sovraesposizione mediatica, per il mio carattere schivo. Piuttosto, la soddisfazione di fare qualcosa di travolgente, di passionale, non ha prezzo: soprattutto verso un club che mi ha dato tutto ciò che ho appena detto".
Eppure quella dell'eterno ex campione sembrerebbe una bella condizione.
"Io ho avuto la fortuna dell'indipendenza di lavoro e di pensiero e me la tengo, quindi dico ciò che penso. E penso che molti calciatori abbiano tante cose da dire e da fare. Il calciatore, secondo me, dovrebbe avere più coscienza del proprio ruolo. E' difficile cambiare le cose, finché uno non le vuole cambiare veramente. Serve un po' più di coraggio, nella vita. Prendiamo, ad esempio, la questione delle frange violente del tifo".
Allude al suo dissidio con gli ultrà?
"Io fui contestato, nella mia ultima partita a San Siro, perché sono sempre stato indipendente e non mi sono mai piegato a quel tipo di logica. Le società, nei rapporti con i violenti, devono essere più coraggiose. Stadi vecchi e petardi: non è questa la mia idea del calcio del futuro".
Se la Figc le proponesse un incarico su questo tema?
"Indipendentemente da me, questo potrebbe essere un ruolo quasi federale. Ma c'è voglia di cambiare? La legge sugli stadi è ancora nel cassetto, dopo tre anni".
IL CALCIO AI CALCIATORI
Anche da spettatore, lo si avverte parlandole, lei segue il calcio con lo stesso amore di quando giocava.
"Io per questo sport provo eterna gratitudine, il mio è un amore passionale. A me piace andare allo stadio. Quest'anno ho visto Juve-Chelsea anche per vedere lo stadio nuovo della Juve. E ho trovato una squadra che gioca un calcio moderno in uno stadio moderno. L'Italia si butta addosso anche colpe che non ha. La Juve è di livello europeo, è una tra le prime 5-6 come tipo di gioco. Per il resto, in Italia, provo una tristezza enorme per gli stadi vuoti: il paragone con la Germania è avvilente. Negli ultimi anni San Siro è spesso una desolazione. Almeno, però, hanno rifatto il campo".
Era il suo incubo personale: lo verniciavano per farlo sembrare bello e lei s'infuriava.
"Già. Era pericoloso per noi e nocivo per lo spettacolo. Il mio rimpianto è che abbiano risolto il problema quando io ho smesso. Ma quanto tempo è dovuto passare! E c'è voluta una figuraccia a livello europeo, perché il Barcellona si è lamentato del terreno. Io vedo dal vivo anche altri sport e mi sono convinto che gli stadi siano una priorità".
Allude agli stadi americani?
"Alludo alla Germania, dove il Mondiale 2006 ha cambiato tutto, e agli sport americani, al basket e al baseball, che pure non sono i miei sporti. Vado a New York a vedere i Knicks o gli Yankees ed è uno spettacolo, nel rispetto dello spettatore. Noi siamo il paese del turismo, ma ce lo siamo dimenticati. Dopo Italia '90 siamo tornati indietro: non abbiamo sfruttato l'occasione. Siamo vecchi".
Anche tra i dirigenti?
"Alla cerimonia della Hall of Fame ho incontrato Albertini, che fa il vicepresidente federale. Con Tommasi, presidente dell'Aic, è l'unica faccia nuova del calcio negli ultimi 25 anni. Ho grande rispetto per chi è lì da 30 anni ed è una persona perbene. Ma un trentacinquenne vede le cose diversamente da un settantenne. Il calcio, come tutte le cose al mondo, cambia".
Il suo slogan è: più calciatori nel governo del calcio?
"A me sembra che si debba aprire la mente, guardando anche gli altri sport che generano grandi introiti. Non ci si può consegnare al dio denaro. Nessuno sport può reggere 11 mesi ai massimi livelli, tra Nazionale, coppe e campionato. Se vuoi vincere, devi salvaguardare [e1] la salute dell'atleta e lo spettacolo. Nella Nba ci sono tre mesi di vacanza".
La moviola in campo?
"Sul fuorigioco discusso fermare la partita può creare complicazioni, perché sulla stessa azione si possono avere 3 o 4 opinioni discordanti. Ma per il gol fantasma è assurdo dire no a priori alla tecnologia, se dà reali vantaggi. In una partita di tennis tutti ormai siamo contenti che ci sia una macchina che dice se la pallina è fuori o dentro. Nessuno tornerebbe agli anni Settanta, quando il tennista cancellava il segno".
L'evoluzione del calcio è stata anche tecnica?
"No. Io vedo un sacco di squadre che attaccano, ma una notevole carenza difensiva. Oggi la cosa più difficile è difendersi. Ormai i terzini non sono più difensori, i centrali a volte sono ex centrocampisti e si lavora poco sotto l'aspetto difensivo. C'è una sola squadra sulla quale non so dare un giudizio da questo punto di vista, perché è atipica in tutto, anche nel difendersi. Ma i numeri dicono che anche in questo il Barcellona è unico".
La rivoluzione del Barça farà la storia, come quelle dell'Ajax di Michels e del Milan di Sacchi?
"Sicuramente. E' un piacere vedere giocare il Barcellona. E' una squadra di calciatori educati, con grandissime doti tecniche. E poi è l'elogio della democrazia del calcio. A parte un paio, il Barça è composto di giocatori di 1,65 o giù di lì, che però non fanno vedere il pallone agli avversari".
Messi vale Maradona?
"E' della stessa categoria. Gioca sempre, con un rendimento sempre altissimo, è giovane e farà ancora in tempo a vincere con l'Argentina, come Maradona. Per me è sicuramente più forte di Cristiano Ronaldo, tanto più che io sono abituato a vedere anche l'uomo, non solo il calciatore: Messi, per come si comporta in campo, è un esempio per i ragazzi".
Il livello della serie A, nel frattempo, è sceso.
"Il record del Milan, quello delle 56 partite senza sconfitte, vale di più, perché arrivò nel periodo delle cosiddette sette sorelle: il Parma vinceva la Coppa Uefa, la Lazio la Coppa delle coppe e in Europa tutte le italiane arrivavano fino in fondo. Ora la Juve vince a mani basse ed è l'unica che può fare qualcosa anche in Champions".
C'entra la crisi?
"Sì, ma l'Inter tutto sommato ha fatto bene lo stesso, mentre mi ha deluso un po' il Napoli: credo che potesse puntare a qualcosa in più. La crisi è importante, però la politica ha una grossa influenza sullo stato del calcio italiano. Me ne accorsi quando partecipai alla presentazione della candidatura a Euro 2016. Quella era una scelta esclusivamente politica. Ma l'Italia non ha voglia di pensare al rinnovamento, anche se la legge sugli stadi non peserebbe sulle casse dello Stato e, anzi, potrebbe dare qualcosa al calcio italiano".
Il suo ex collega Platini, da presidente dell'Uefa, fa abbastanza per il calcio?
"All'inizio non ero d'accordo con lui su tante cose. Poi in tante altre mi è piaciuto. Ha dimostrato che un ex calciatore con la testa, in un mondo molto politico come quello dell'Uefa, può dare idee innovative. Il fair-play finanziario è importante. Si gareggia ad armi impari: ci sono squadre con 500 milioni di debiti e altre no, ci sono le spagnole che godono di una tassazione inferiore".
IL TALENTO DI EL SHAARAWY
Intanto i club italiani puntano finalmente sui giovani.
"Secondo me è una scelta del tutto casuale e non programmata, almeno non da tutti. Ma può essere un gran bene: avete visto De Sciglio nel Milan? Probabilmente, qualche anno fa, non avrebbe trovato posto".
E' il suo erede, dicono.
"I paragoni si faranno sempre, ma non fanno mai bene a chi sta arrivando. Deve continuare così. E' assolutamente lineare: fa tutto bene in maniera semplice. Anche quando è entrato nel derby, e non era affatto facile, ha impressionato per la semplicità nel gioco. Mi sembra un ragazzo equilibrato: trovarsi a quell'età titolare nel Milan si può pagare, perché si sente troppo la pressione, se non si è equilibrati. Un altro terzino di talento era Santon, all'Inter: credo che giocare all'estero gli faccia bene".
La grande scuola difensiva italiana si sta esaurendo?
"Non è solo un problema dell'Italia. Nelle giovanili c'è poca specializzazione nel ruolo. Nel mondo, ormai, solo Thiago Silva è l'unico che può cambiare una partita. Probabilmente imparare a correre dietro l'avversario è molto più duro che attaccare e meno gratificante".
Non sapere più marcare a uomo non è un limite?
"Io credo piuttosto che, per arrivare al tipo di gioco a zona quasi perfetto del Milan di Sacchi, fossero serviti allenamenti massacranti e ripetitivi, per studiare tutte le varianti: era una fatica inenarrabile. Adesso lo è ancora di più, visto che le regole sono cambiate e le varianti da studiare sono aumentate".
La Nazionale la diverte oppure il gioco di Prandelli, basato sul possesso palla, le sembra un azzardo?
"A me la Nazionale dell'Europeo è piaciuta tantissimo. Chi dice che il calcio italiano è vecchio è servito. Ha dato la dimostrazione di sapersi adattare, in ogni difficoltà, e di avere ancora qualcosa in più, anche a livello di conoscenze, vedi Italia-Germania".
L'Italia ha perso finalmente la fama di patria del catenaccio.
"Questo è un altro luogo comune assurdo. Perché, Lippi era un catenacciaro? E Sacchi? E mio padre stesso, che schierava tre attaccanti?".
Chi è il migliore calciatore italiano, oggi?
"Pirlo è un giocatore unico, Buffon un portiere eccezionale, Barzagli il migliore difensore, De Rossi un grande centrocampista anche se gioca poco. In questo momento mi piace tanto El Shaarawy. Quest'estate, guardando Milan-Chelsea, ho discusso di lui con alcuni amici, perplessi sul suo precampionato. Io vedevo che faceva le due fasi senza problemi, si capivano le sue potenzialità. Ma mi ha sorpreso comunque, per la resistenza e per la capacità di segnare. Spero che rimanga umile: la testa non è un dettaglio, nello sport".
La domanda sorge spontanea: e Balotelli?
"Deve trovare la tranquillità personale. Se no, sarà sempre un'eterna promessa. Gli anni passano, è ora di prendere in mano la propria vita, con responsabilità".
Pato ritroverà se stesso, in Brasile?
"Dissi un anno fa: quando lo vedrò trascinare una squadra non solo con le giocate, ma col carattere, potrò dire che può diventare uno dei primi tre al mondo. Oggi devo sospendere ancora il giudizio".
UN UOMO LIBERO
Che cosa pensa della politica del Milan e dell'eventualità che Berlusconi, prima o poi, venda il club?
"Penso che l'idea di ringiovanire la squadra sia condivisibile e che la gente sia disposta ad aspettare qualche anno, se vede una progettualità. Però il progetto ci deve essere, non può durare tre mesi. E per vincere, i giovani non bastano, me lo dice l'esperienza. Io credo che si possa fare bene anche con una disponibilità economica limitata. Tanti calciatori verrebbero ancora di corsa al Milan, per quello che è stato nei 25 anni magici di cui parlavo. Questo fascino è una forza, non va sprecato".
Ma questa stagione, ormai, è quasi segnata?
"Il Milan, quest'anno, ha giocato anche bene, come contro la Juve. Ma col Barça, in Champions, poche squadre possono pensare di uscire indenni. E per entrare fra le prime tre in campionato serve quasi un miracolo, un girone di ritorno prodigioso. Vedo più possibile la qualificazione all'Europa League, anche se davanti ci sono tante squadre".
E' vero che lei, durante la sua interminabile avventura rossonera, rischiò di andare al Chelsea e alla Juve?
"Ho incontrato di recente Boniperti e mi ha confermato che la Juve mi voleva. Al Chelsea mi chiamò Vialli nel '96. Però preferii restare al Milan, per venire fuori da un'annata disastrosa. E' stata una scelta giusta. Poi, per l'Arsenal mi chiamò una persona, facendomi un'offerta economica, e ci fu anche una richiesta di Ferguson per il Manchester United e forse un'altra del Real Madrid. La verità è che molto spesso queste richieste coincidevano con annate storte: sarebbe stato probabilmente più semplice accettare. Ma noi del nucleo storico ci prendevamo le nostre responsabilità, preferivamo rimanere e riscattarci sul campo, mettendoci la faccia".
Secondo la stampa francese, il Psg di Ancelotti la voleva, per allenare i difensori.
"Ma se ho appena dato che allenare non m'interessa! Sono stato ospite di Leonardo a Parigi. Ma solo ospite, nessuna proposta".
Da ex capitano: non è che il Milan perda l'identità, cambiando in media un capitano ogni tre partite?
"Colpa degli infortuni e del cambiamento traumatico della squadra l'estate scorsa. Tutto questo dà il senso appunto del grosso cambiamento in atto. Ricordo quando ereditai la fascia da Franco Baresi. Capello chiese chi fosse il nuovo capitano. Anche altri, come Billy Costacurta, ne avevano diritto. Decidemmo nello spogliatoio e io non ebbi problemi a prendermi la responsabilità".
La sua maglia numero 3 è stata ritirata: potrebbero indossarla, in teoria, soltanto i suoi figli Christian, 16 anni, e Daniel, 11, che giocano da terzino e da centravanti-ala nelle giovanili del Milan.
"Non è uno dei miei primi pensieri e spero che non sia il loro. Ci stanno mettendo un sacco di passione e quello deve essere il loro pensiero. Mi posso immaginare il tipo di pressione, che è quello che avevo io, figlio di Cesare capitano del Milan, però addirittura moltiplicato. A me interessa che crescano bene, nello sport, nella scuola, nei rapporti con gli altri".
Studiare e fare sport ad alto livello, in Italia, non è semplice.
"Di sicuro molti ragazzi vengono sradicati e in generale non sempre la scuola ti aiuta. Ricordo che io, che pure ho avuto la fortuna di crescere e studiare a Milano, nella mia città, avevo una professoressa che mi chiamava, apposta, 'il calcista'. Potrebbe servire un'impostazione all'americana, con le scuole e le università in cui chi ha talento nello sport viene trattato come un genio matematico".
Almeno i settori giovanili tutelano il talento?
"Anche lì è cambiato tutto. Ad ogni partita ci sono i convocati i non convocati, è aumentata la competizione. In questo era più bello ai miei tempi, perché la crescita di un ragazzo passa attraverso periodi più o meno floridi dal punto di vista fisico. Molto spesso, per la competizione enorme di cui parlavo, non si aspetta un ragazzo. Ed è un peccato, perché a quell'età esistono differenze fisiche e ormonali".
Che cosa conta di più, oltre alla tecnica?
"I valori. Uno forma il proprio carattere, ma l'impostazione che ti danno i genitori è fondamentale e più di tutto lo è il senso della lealtà. A volte ti fa prendere una strada più lunga, però alla fine te lo riconoscono tutti. E' la cosa più bella che mi sia successa, da quando ho smesso: questo riconoscimento generale".
Lei ha giocato più minuti di qualunque giocatore ai Mondiali e ha smesso da protagonista a oltre 40 anni: la longevità agonistica ad alto livello è il record che più la inorgoglisce?
"Non ho saltato un minuto, tra Mondiali ed Europei, e soprattutto nel Milan ho giocato più di chiunque altro. Ma a inorgoglirmi è l'indipendenza intellettuale, che mi gusto appieno ormai da una quindicina d'anni. Io non sono assolutamente una persona perfetta, ho fatto le mie esperienze, positive e negative. Ho osservato molto e ho cercato i sbagliare il meno possibile. La mia indipendenza, adesso, non la baratterei proprio con nulla.
Il calcio ai calciatori e la politica ai politici.
"Ma no, i calciatori sono uomini come gli altri, e magari possono essere particolarmente sensibili a certe problematiche. Solo che a me la politica non interessa".
Alcuni suoi ex compagni, come Kaladze in Georgia, Shevchenko in Ucraina e Weah in Liberia, sono diventati politici.
"Ma loro rappresentano dei simboli, nei rispettivi paesi, paesi con situazioni particolari. L'Italia è, o dovrebbe essere, un paese con una democrazia un pochino più solida".
Lei, invece, è certamente un simbolo del Milan. E' soltanto perché Berlusconi non l'ha più chiamata che lei non è ancora entrato nel club?
"No. E' perché il Milan, giustamente, fa le sue politiche: le decidono il presidente e la dirigenza ed è normale che sia così".
Però sono già passati 3 anni e mezzo dal suo ritiro: in questo modo non rischia ormai un futuro lontano dal calcio?
"Sì, ma la cosa non mi spaventa. Ho fatto così tanto, nel calcio, che nulla mi toglierà mai quello che c'è stato per 31 anni, da quando cominciai nel settore giovanile del Milan. Il "rischio" di restare fuori dal mondo del calcio, oggettivamente, esiste. Io ho avuto un passato e un legame così forte col Milan che è difficile immaginarmi dentro un'altra realtà, anche europea: le possibilità si assottigliano".
Elenchiamole.
"Con una premessa indispensabile, però. Io non mi sto offrendo al Milan. Io faccio l'imprenditore nel settore immobiliare, ho iniziato quando ancora giocavo e ho ormai un'attività avviata, fuori dal calcio. Se però parliamo di calcio e di quale ruolo potrei avere nel calcio, io rispondo alle domande".
Allenatore?
"Mai preso in considerazione, perché ho visto mio padre e la vita da nomade che faceva. Non fa per me. E poi, se uno fa l'allenatore, deve aprire a tutte le possibilità, come ha fatto legittimamente Leonardo: non può pensare di allenare solo il Milan. Perciò, visto che io non penso di potere lavorare in un altro club italiano, le possibilità che io alleni sono pari allo zero. E in un altro paese poco di più".
Rimane l'incarico dirigenziale.
"Non mi piace la politica, quindi dovrebbe essere qualcosa di legato al calcio in senso stretto".
Cioè?
"Io posso portare la mia conoscenza calcistica: la valutazione dei calciatori e un'esperienza che ho acquisito nella mia lunga carriera. Io credo di avere vissuto tutta l'evoluzione del calcio moderno, quindi sì, potrei fare il dirigente. Nel calcio non è che abbondi la gente competente al 100%. C'è chi si è inventato il lavoro, ma non sempre trovi chi sa di tattica, di calciatori, di psicologia calcistica. Gli anni da capitano del Milan, dal '97 in poi, mi sono serviti tanto. L'ho fatto anche in Nazionale, dal '94 al 2002, ma è stato diverso: in Nazionale gestisci l'evento, nel club la quotidianità. E impari tantissimo".
La Figc, la Fifa o l'Uefa?
"Non ci ho mai pensato sul serio. Un ruolo tanto per averlo o un incarico di rappresentanza non mi interessano".
UNA RISORSA SPRECATA
Intanto lei è una risorsa inutilizzata: non si sente uno spreco?
"Bisogna vedere se io vengo visto come una risorsa o come un problema. Vuole che le dica che cosa mi dà veramente fastidio?".
Prego.
"Parliamo del Milan, perché io ho avuto la fortuna di partecipare a 25 anni splendidi. Beh, quando sono arrivato, io ho trovato già una grande base per costruire una grande squadra: grandi calciatori e grandi persone. Berlusconi è arrivato e ci ha insegnato a pensare in grande. Certo, con gli investimenti, perché comprava i migliori. Ma lui ci ha messo la mentalità nuova, soprattutto: Sacchi e l'idea che il club dovesse diventare un modello per il tipo di gioco, per le vittorie. Insomma, si è creato veramente qualcosa di magico, grazie alla personalità di chi già c'era e di chi è arrivato".
Poi?
"Poi, a poco a poco, questo si è perso e il Milan si è trasformato, da squadra magica, in una squadra assolutamente normale. E sa perché? Perché - a differenza di tanti grandi club europei con un passato simile, tipo Real, Barcellona e Bayern, dove chi ha scritto la storia della squadra è andato a lavorare lì per trasmettere ai giovani quello che aveva imparato - nel Milan la società stessa ha smesso di trasmettere quel messaggio, al di là degli investimenti. All'interno del Milan attuale non c'è nessuno, tra quelli che ne hanno fatto la storia, ad avere un ruolo non marginale".
Il paragone è col Bayern?
"Esatto, ma non solo. Guardi la storia del Bayern e del Real e i ruoli che hanno avuto nel tempo Beckenbauer, Hoeness, Rummenigge, Butragueño, Gallego, Valdano. Anche ai nuovi che arrivano, questa guida e questa magia sono più facili da trasmettere attraverso chi l'ha provata e anche creata. Il Milan è sempre stato una grande squadra, anche ai tempi di mio padre. Ma la grande magia c'è stata per 25 anni. Poi s'è persa".
E' un processo irreversibile?
"Valutare la programmazione di questo Milan è difficile. In estate sono andati via 12 giocatori di grande personalità e non mettere in conto un inizio di stagione complicato mi sembra non programmare il futuro e aspettare il mercato invernale. Dove di affari veri, in genere, se ne fanno pochi".
Galliani, però, ha spiegato spesso che era tutto previsto e che questo è l'anno 1.
"Io vedo sinceramente poca programmazione. Magari mi sbaglierò, ma certe scelte di giocatori, anche se a parametro zero, sono lontane dall'idea di un programma studiato".
Berlusconi ha appena parlato di una nuova politica, basata solo sugli Under 22.
"Quelli davvero bravi costano dai 20 milioni in su e non ce ne sono tanti. Abbassare il monte ingaggi e ringiovanire la rosa è fondamentale, d'accordo. Ma la valutazione dei giocatori non so da chi venga, visto che Braida fa sempre meno quel lavoro".
Ci si affida sempre a un procuratore di riferimento, come Raiola.
"E' la logica degli ultimi anni. Le racconto una cosa. Gli ultimi due allenatori hanno cercato di portarmi dentro. Leonardo mi voleva a Milanello: "Anche senza fare niente - mi diceva - solo con la tua presenza". Ma io gli risposi che non aveva senso presentarmi a Milanello senza un ruolo".
Lei avrebbe fatto il direttore sportivo?
"Galliani, in presenza di Leo, mi disse che il ds è una figura non esiste più e che il Milan era a posto in quel ruolo. A me sembra invece che ci sia carenza".
LA CHIAMATA DI ALLEGRI
E Allegri?
"Allegri, l'anno scorso, mi disse che aveva bisogno di qualcuno che controllasse anche lui: "Paolo, chi mi dice se ho sbagliato qualcosa anche tatticamente e nella gestione dello spogliatoio, che ricade solo su di me?". Gli serviva uno che avesse la personalità per parlare con i giocatori importanti - con Ibra, con Boateng, con altri - in modo autorevole. E lui pensava che io, col mio passato, potessi farlo".
Può raccontare i dettagli di quella proposta?
"Max mi chiamò quando ero in vacanza negli States, dicendomi appunto che mi voleva parlare, perché aveva bisogno di me per gestire il gruppo. Ci siamo visti, ci siamo sentiti al telefono e io lo avvisai che questo avrebbe potuto rappresentare un problema per lui. Allegri mi disse che aveva parlato con la società e che sembrava tutto ok. Poco dopo, via sms, mi scrisse che mi avrebbe chiamato entro pochi giorni. Era l'ottobre del 2011, non l'ho più sentito. Io non ho mai cercato nessuno, lo ripeto. E' stato sempre il contrario".
Qual è oggi il suo sentimento verso il Milan?
"Mi capita di ripensare al passato. Eravamo coscienti del nostro ruolo. I giocatori facevano i giocatori, i dirigenti i dirigenti. Ognuno si prendeva le proprie responsabilità, senza ingerenze. C'era talmente tanta conoscenza della materia calcio a livello globale... Solo uno stupido non assorbe nozioni dal lavoro che fa e noi eravamo proprio una squadra".
La sensazione comune è che Galliani non la voglia.
"Può darsi. E' il dirigente che ha vinto di più ed è anche legittimo che faccia le sue scelte e si scelga i collaboratori in cui crede. Ma vorrei sfatare la diceria che io sarei uno della famiglia. Non è vero: non mi vogliono così spasmodicamente".
Quindi il sentimento è di delusione?
"Direi di amarezza, e non solo mia. Amarezza perché tutto quello che si è creato insieme si è dissolto. E' la stessa sensazione di molti miei ex compagni. Non è scontato che si crei la magia che noi abbiamo vissuto. Ecco, io, vorrei restituire, tutto qui. Ho dato più di qualsiasi altro nella storia del Milan, ho giocato più partite di tutti. Ma sento che quello che ho ricevuto è ancora di più. Sento un debito di riconoscenza".
Ne ha mai parlato con Berlusconi?
"Lo dissi al presidente prima di smettere. L'aspetto economico non è una leva che può fare effetto su di me. Il lavoro di ognuno di noi va pagato nella giusta maniera, ma non è quello a decidere. E neanche può contare lo stare sotto i riflettori: io ho avuto anche troppa sovraesposizione mediatica, per il mio carattere schivo. Piuttosto, la soddisfazione di fare qualcosa di travolgente, di passionale, non ha prezzo: soprattutto verso un club che mi ha dato tutto ciò che ho appena detto".
Eppure quella dell'eterno ex campione sembrerebbe una bella condizione.
"Io ho avuto la fortuna dell'indipendenza di lavoro e di pensiero e me la tengo, quindi dico ciò che penso. E penso che molti calciatori abbiano tante cose da dire e da fare. Il calciatore, secondo me, dovrebbe avere più coscienza del proprio ruolo. E' difficile cambiare le cose, finché uno non le vuole cambiare veramente. Serve un po' più di coraggio, nella vita. Prendiamo, ad esempio, la questione delle frange violente del tifo".
Allude al suo dissidio con gli ultrà?
"Io fui contestato, nella mia ultima partita a San Siro, perché sono sempre stato indipendente e non mi sono mai piegato a quel tipo di logica. Le società, nei rapporti con i violenti, devono essere più coraggiose. Stadi vecchi e petardi: non è questa la mia idea del calcio del futuro".
Se la Figc le proponesse un incarico su questo tema?
"Indipendentemente da me, questo potrebbe essere un ruolo quasi federale. Ma c'è voglia di cambiare? La legge sugli stadi è ancora nel cassetto, dopo tre anni".
IL CALCIO AI CALCIATORI
Anche da spettatore, lo si avverte parlandole, lei segue il calcio con lo stesso amore di quando giocava.
"Io per questo sport provo eterna gratitudine, il mio è un amore passionale. A me piace andare allo stadio. Quest'anno ho visto Juve-Chelsea anche per vedere lo stadio nuovo della Juve. E ho trovato una squadra che gioca un calcio moderno in uno stadio moderno. L'Italia si butta addosso anche colpe che non ha. La Juve è di livello europeo, è una tra le prime 5-6 come tipo di gioco. Per il resto, in Italia, provo una tristezza enorme per gli stadi vuoti: il paragone con la Germania è avvilente. Negli ultimi anni San Siro è spesso una desolazione. Almeno, però, hanno rifatto il campo".
Era il suo incubo personale: lo verniciavano per farlo sembrare bello e lei s'infuriava.
"Già. Era pericoloso per noi e nocivo per lo spettacolo. Il mio rimpianto è che abbiano risolto il problema quando io ho smesso. Ma quanto tempo è dovuto passare! E c'è voluta una figuraccia a livello europeo, perché il Barcellona si è lamentato del terreno. Io vedo dal vivo anche altri sport e mi sono convinto che gli stadi siano una priorità".
Allude agli stadi americani?
"Alludo alla Germania, dove il Mondiale 2006 ha cambiato tutto, e agli sport americani, al basket e al baseball, che pure non sono i miei sporti. Vado a New York a vedere i Knicks o gli Yankees ed è uno spettacolo, nel rispetto dello spettatore. Noi siamo il paese del turismo, ma ce lo siamo dimenticati. Dopo Italia '90 siamo tornati indietro: non abbiamo sfruttato l'occasione. Siamo vecchi".
Anche tra i dirigenti?
"Alla cerimonia della Hall of Fame ho incontrato Albertini, che fa il vicepresidente federale. Con Tommasi, presidente dell'Aic, è l'unica faccia nuova del calcio negli ultimi 25 anni. Ho grande rispetto per chi è lì da 30 anni ed è una persona perbene. Ma un trentacinquenne vede le cose diversamente da un settantenne. Il calcio, come tutte le cose al mondo, cambia".
Il suo slogan è: più calciatori nel governo del calcio?
"A me sembra che si debba aprire la mente, guardando anche gli altri sport che generano grandi introiti. Non ci si può consegnare al dio denaro. Nessuno sport può reggere 11 mesi ai massimi livelli, tra Nazionale, coppe e campionato. Se vuoi vincere, devi salvaguardare [e1] la salute dell'atleta e lo spettacolo. Nella Nba ci sono tre mesi di vacanza".
La moviola in campo?
"Sul fuorigioco discusso fermare la partita può creare complicazioni, perché sulla stessa azione si possono avere 3 o 4 opinioni discordanti. Ma per il gol fantasma è assurdo dire no a priori alla tecnologia, se dà reali vantaggi. In una partita di tennis tutti ormai siamo contenti che ci sia una macchina che dice se la pallina è fuori o dentro. Nessuno tornerebbe agli anni Settanta, quando il tennista cancellava il segno".
L'evoluzione del calcio è stata anche tecnica?
"No. Io vedo un sacco di squadre che attaccano, ma una notevole carenza difensiva. Oggi la cosa più difficile è difendersi. Ormai i terzini non sono più difensori, i centrali a volte sono ex centrocampisti e si lavora poco sotto l'aspetto difensivo. C'è una sola squadra sulla quale non so dare un giudizio da questo punto di vista, perché è atipica in tutto, anche nel difendersi. Ma i numeri dicono che anche in questo il Barcellona è unico".
La rivoluzione del Barça farà la storia, come quelle dell'Ajax di Michels e del Milan di Sacchi?
"Sicuramente. E' un piacere vedere giocare il Barcellona. E' una squadra di calciatori educati, con grandissime doti tecniche. E poi è l'elogio della democrazia del calcio. A parte un paio, il Barça è composto di giocatori di 1,65 o giù di lì, che però non fanno vedere il pallone agli avversari".
Messi vale Maradona?
"E' della stessa categoria. Gioca sempre, con un rendimento sempre altissimo, è giovane e farà ancora in tempo a vincere con l'Argentina, come Maradona. Per me è sicuramente più forte di Cristiano Ronaldo, tanto più che io sono abituato a vedere anche l'uomo, non solo il calciatore: Messi, per come si comporta in campo, è un esempio per i ragazzi".
Il livello della serie A, nel frattempo, è sceso.
"Il record del Milan, quello delle 56 partite senza sconfitte, vale di più, perché arrivò nel periodo delle cosiddette sette sorelle: il Parma vinceva la Coppa Uefa, la Lazio la Coppa delle coppe e in Europa tutte le italiane arrivavano fino in fondo. Ora la Juve vince a mani basse ed è l'unica che può fare qualcosa anche in Champions".
C'entra la crisi?
"Sì, ma l'Inter tutto sommato ha fatto bene lo stesso, mentre mi ha deluso un po' il Napoli: credo che potesse puntare a qualcosa in più. La crisi è importante, però la politica ha una grossa influenza sullo stato del calcio italiano. Me ne accorsi quando partecipai alla presentazione della candidatura a Euro 2016. Quella era una scelta esclusivamente politica. Ma l'Italia non ha voglia di pensare al rinnovamento, anche se la legge sugli stadi non peserebbe sulle casse dello Stato e, anzi, potrebbe dare qualcosa al calcio italiano".
Il suo ex collega Platini, da presidente dell'Uefa, fa abbastanza per il calcio?
"All'inizio non ero d'accordo con lui su tante cose. Poi in tante altre mi è piaciuto. Ha dimostrato che un ex calciatore con la testa, in un mondo molto politico come quello dell'Uefa, può dare idee innovative. Il fair-play finanziario è importante. Si gareggia ad armi impari: ci sono squadre con 500 milioni di debiti e altre no, ci sono le spagnole che godono di una tassazione inferiore".
IL TALENTO DI EL SHAARAWY
Intanto i club italiani puntano finalmente sui giovani.
"Secondo me è una scelta del tutto casuale e non programmata, almeno non da tutti. Ma può essere un gran bene: avete visto De Sciglio nel Milan? Probabilmente, qualche anno fa, non avrebbe trovato posto".
E' il suo erede, dicono.
"I paragoni si faranno sempre, ma non fanno mai bene a chi sta arrivando. Deve continuare così. E' assolutamente lineare: fa tutto bene in maniera semplice. Anche quando è entrato nel derby, e non era affatto facile, ha impressionato per la semplicità nel gioco. Mi sembra un ragazzo equilibrato: trovarsi a quell'età titolare nel Milan si può pagare, perché si sente troppo la pressione, se non si è equilibrati. Un altro terzino di talento era Santon, all'Inter: credo che giocare all'estero gli faccia bene".
La grande scuola difensiva italiana si sta esaurendo?
"Non è solo un problema dell'Italia. Nelle giovanili c'è poca specializzazione nel ruolo. Nel mondo, ormai, solo Thiago Silva è l'unico che può cambiare una partita. Probabilmente imparare a correre dietro l'avversario è molto più duro che attaccare e meno gratificante".
Non sapere più marcare a uomo non è un limite?
"Io credo piuttosto che, per arrivare al tipo di gioco a zona quasi perfetto del Milan di Sacchi, fossero serviti allenamenti massacranti e ripetitivi, per studiare tutte le varianti: era una fatica inenarrabile. Adesso lo è ancora di più, visto che le regole sono cambiate e le varianti da studiare sono aumentate".
La Nazionale la diverte oppure il gioco di Prandelli, basato sul possesso palla, le sembra un azzardo?
"A me la Nazionale dell'Europeo è piaciuta tantissimo. Chi dice che il calcio italiano è vecchio è servito. Ha dato la dimostrazione di sapersi adattare, in ogni difficoltà, e di avere ancora qualcosa in più, anche a livello di conoscenze, vedi Italia-Germania".
L'Italia ha perso finalmente la fama di patria del catenaccio.
"Questo è un altro luogo comune assurdo. Perché, Lippi era un catenacciaro? E Sacchi? E mio padre stesso, che schierava tre attaccanti?".
Chi è il migliore calciatore italiano, oggi?
"Pirlo è un giocatore unico, Buffon un portiere eccezionale, Barzagli il migliore difensore, De Rossi un grande centrocampista anche se gioca poco. In questo momento mi piace tanto El Shaarawy. Quest'estate, guardando Milan-Chelsea, ho discusso di lui con alcuni amici, perplessi sul suo precampionato. Io vedevo che faceva le due fasi senza problemi, si capivano le sue potenzialità. Ma mi ha sorpreso comunque, per la resistenza e per la capacità di segnare. Spero che rimanga umile: la testa non è un dettaglio, nello sport".
La domanda sorge spontanea: e Balotelli?
"Deve trovare la tranquillità personale. Se no, sarà sempre un'eterna promessa. Gli anni passano, è ora di prendere in mano la propria vita, con responsabilità".
Pato ritroverà se stesso, in Brasile?
"Dissi un anno fa: quando lo vedrò trascinare una squadra non solo con le giocate, ma col carattere, potrò dire che può diventare uno dei primi tre al mondo. Oggi devo sospendere ancora il giudizio".
UN UOMO LIBERO
Che cosa pensa della politica del Milan e dell'eventualità che Berlusconi, prima o poi, venda il club?
"Penso che l'idea di ringiovanire la squadra sia condivisibile e che la gente sia disposta ad aspettare qualche anno, se vede una progettualità. Però il progetto ci deve essere, non può durare tre mesi. E per vincere, i giovani non bastano, me lo dice l'esperienza. Io credo che si possa fare bene anche con una disponibilità economica limitata. Tanti calciatori verrebbero ancora di corsa al Milan, per quello che è stato nei 25 anni magici di cui parlavo. Questo fascino è una forza, non va sprecato".
Ma questa stagione, ormai, è quasi segnata?
"Il Milan, quest'anno, ha giocato anche bene, come contro la Juve. Ma col Barça, in Champions, poche squadre possono pensare di uscire indenni. E per entrare fra le prime tre in campionato serve quasi un miracolo, un girone di ritorno prodigioso. Vedo più possibile la qualificazione all'Europa League, anche se davanti ci sono tante squadre".
E' vero che lei, durante la sua interminabile avventura rossonera, rischiò di andare al Chelsea e alla Juve?
"Ho incontrato di recente Boniperti e mi ha confermato che la Juve mi voleva. Al Chelsea mi chiamò Vialli nel '96. Però preferii restare al Milan, per venire fuori da un'annata disastrosa. E' stata una scelta giusta. Poi, per l'Arsenal mi chiamò una persona, facendomi un'offerta economica, e ci fu anche una richiesta di Ferguson per il Manchester United e forse un'altra del Real Madrid. La verità è che molto spesso queste richieste coincidevano con annate storte: sarebbe stato probabilmente più semplice accettare. Ma noi del nucleo storico ci prendevamo le nostre responsabilità, preferivamo rimanere e riscattarci sul campo, mettendoci la faccia".
Secondo la stampa francese, il Psg di Ancelotti la voleva, per allenare i difensori.
"Ma se ho appena dato che allenare non m'interessa! Sono stato ospite di Leonardo a Parigi. Ma solo ospite, nessuna proposta".
Da ex capitano: non è che il Milan perda l'identità, cambiando in media un capitano ogni tre partite?
"Colpa degli infortuni e del cambiamento traumatico della squadra l'estate scorsa. Tutto questo dà il senso appunto del grosso cambiamento in atto. Ricordo quando ereditai la fascia da Franco Baresi. Capello chiese chi fosse il nuovo capitano. Anche altri, come Billy Costacurta, ne avevano diritto. Decidemmo nello spogliatoio e io non ebbi problemi a prendermi la responsabilità".
La sua maglia numero 3 è stata ritirata: potrebbero indossarla, in teoria, soltanto i suoi figli Christian, 16 anni, e Daniel, 11, che giocano da terzino e da centravanti-ala nelle giovanili del Milan.
"Non è uno dei miei primi pensieri e spero che non sia il loro. Ci stanno mettendo un sacco di passione e quello deve essere il loro pensiero. Mi posso immaginare il tipo di pressione, che è quello che avevo io, figlio di Cesare capitano del Milan, però addirittura moltiplicato. A me interessa che crescano bene, nello sport, nella scuola, nei rapporti con gli altri".
Studiare e fare sport ad alto livello, in Italia, non è semplice.
"Di sicuro molti ragazzi vengono sradicati e in generale non sempre la scuola ti aiuta. Ricordo che io, che pure ho avuto la fortuna di crescere e studiare a Milano, nella mia città, avevo una professoressa che mi chiamava, apposta, 'il calcista'. Potrebbe servire un'impostazione all'americana, con le scuole e le università in cui chi ha talento nello sport viene trattato come un genio matematico".
Almeno i settori giovanili tutelano il talento?
"Anche lì è cambiato tutto. Ad ogni partita ci sono i convocati i non convocati, è aumentata la competizione. In questo era più bello ai miei tempi, perché la crescita di un ragazzo passa attraverso periodi più o meno floridi dal punto di vista fisico. Molto spesso, per la competizione enorme di cui parlavo, non si aspetta un ragazzo. Ed è un peccato, perché a quell'età esistono differenze fisiche e ormonali".
Che cosa conta di più, oltre alla tecnica?
"I valori. Uno forma il proprio carattere, ma l'impostazione che ti danno i genitori è fondamentale e più di tutto lo è il senso della lealtà. A volte ti fa prendere una strada più lunga, però alla fine te lo riconoscono tutti. E' la cosa più bella che mi sia successa, da quando ho smesso: questo riconoscimento generale".
Lei ha giocato più minuti di qualunque giocatore ai Mondiali e ha smesso da protagonista a oltre 40 anni: la longevità agonistica ad alto livello è il record che più la inorgoglisce?
"Non ho saltato un minuto, tra Mondiali ed Europei, e soprattutto nel Milan ho giocato più di chiunque altro. Ma a inorgoglirmi è l'indipendenza intellettuale, che mi gusto appieno ormai da una quindicina d'anni. Io non sono assolutamente una persona perfetta, ho fatto le mie esperienze, positive e negative. Ho osservato molto e ho cercato i sbagliare il meno possibile. La mia indipendenza, adesso, non la baratterei proprio con nulla.
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