GOODYEAR,
ASSOLTA LA FABBRICA DELLA MORTE
di
Laura Pesino
Fausto
se n'è andato il primo giorno del nuovo anno. Ventiquattr'ore prima i medici
avevano avvertito la famiglia che il caso era ormai senza speranza. Come se ci
si potesse poi davvero preparare a una morte che si credeva scampata dieci anni
fa. Aveva 54 anni e un tumore allo stomaco che lo ha devastato. Ed era l'unico
ex operaio Goodyear rimasto in vita tra le decine di altri compagni i cui nomi
figurano nel lungo elenco di morti del primo processo penale celebrato in Italia
contro una multinazionale della gomma.
Omicidio
colposo plurimo e lesioni plurime aggravate. Nove imputati, tutti ex dirigenti,
presidenti e direttori di stabilimento della Goodyear Italia in servizio dagli
anni '70 al '99.
Fausto
aspettava con ansia e timore questa sentenza di appello, lui che non aveva mai
perso un'udienza, sempre in prima fila, a zittire giudici e avvocati raccontando
le condizioni di lavoro in questa fabbrica di morte, il nero che si attaccava
sulla pelle e intorno agli occhi, le tute impregnate, l'aria irrespirabile densa
di polveri . Ma non ha fatto in tempo. C'erano i suoi figli ad ascoltare i
giudici della prima sezione penale della Corte d'Appello di Roma pronunciare
queste parole: assolti perché il fatto non sussiste. È una mannaia caduta sopra
la testa delle mogli e dei figli di oltre 200 morti di lavoro, dopo 13 anni di
battaglie legali e civili e dopo una condanna in primo grado a 21 anni di
carcere complessivi.
Michael
Claude Murphy, Antonio Corsi e Adalberto Muraglia non sono colpevoli delle morti
di cui erano accusati. Per uno solo degli ex dirigenti Goodyear, Perdonato
Palusci, la condanna di primo grado, a un anno e sei mesi, è stata confermata,
ma legata a una soltanto delle parti civili coinvolte nel processo. Per gli
altri cinque imputati, gli americani, tutti "irreperibili" e condannati in
contumacia in primo grado, l'udienza di appello sarà fissata nei prossimi
mesi.
Ma
per le famiglie degli operai la speranza è ora appesa al filo di un ricorso in
Cassazione, che i legali di parte civile, Luigi Di Mambro, Cristina Michetelli,
Michela Luison e Mario Battisti, presenteranno non appena saranno note le
motivazioni di questa sentenza che ha rovesciato quella pronunciata nel 2008 dal
Tribunale di Latina. Passerà altro tempo prima di veder scritta la parola fine.
Si ricomincia da capo. Perché questa è la storia di un gruppo di operai e delle
loro famiglie che hanno deciso di fare la guerra a un colosso americano e per
loro la strada è tutta in salita. Nelle aule di tribunale hanno portato le loro
storie, le loro malattie, le cartelle cliniche degli ospedali che attestavano
tumori e neoplasie e i libretti sanitari di fabbrica compilati a ogni visita
medica con la stessa frase: "Nulla di rilevante".
La
Goodyear in Italia era arrivata nel '65 con i fondi della Cassa del Mezzogiorno,
scegliendo il piccolo comune di Cisterna, in provincia di Latina, avamposto del
Centro Sud. Per decenni è il simbolo dell'industrializzazione di un territorio
agricolo, del progresso felice e sfrenato, dei soldi e della ricchezza. Per
tutti è "mamma Goodyear", che strappa gli uomini alla disoccupazione, offre
stabilità economica a famiglie monoreddito, fa coltivare il sogno dei figli
all'università e spalanca le porte a mogli e bambini in occasione della
tradizionale "festa della famiglia". Per decenni occupa migliaia di persone
sfiorando picchi di produzione di 20.000 pneumatici al giorno. C'è lavoro e
guadagno per tutti. Ma dentro è l'inferno. Nel reparto presse, nel Banbury,
nelle trafilature e nella vulcanizzazione si lavora si lavora a mani nude o con
guanti d'amianto per resistere alle temperature incandescenti. Gli operai
respirano ogni giorno polvere di nero fumo, fibre di amianto, ammine aromatiche,
vernici, solventi, benzene, pigmenti, silice, talco, almeno 100 composti chimici
differenti altamente cancerogeni. Ma non lo sanno. La loro divisa è una tuta blu
che non tolgono neppure quando siedono a mensa. Nessuno fornisce loro mascherine
o dispositivi di protezione, nessuno li informa del fatto che le sostanze che
quotidianamente maneggiano sono letali. Così tutti tornano a casa ricoperti di
nero, fin dentro gli occhi. Quel nero che non viene via neppure dopo la doccia e
che resta impresso sulle lenzuola e sui cuscini anche quando dormono. Ma nessuno
si lamenta perché nessuno sa.
Solo
dopo gli anni '80 cominciano le prime malattie, tumori e neoplasie ai polmoni,
allo stomaco, alla vescica, alla laringe. Le annota tutte il sindacalista
Agostino Campagna sulla sua agenda rossa. Sono dieci, venti, cinquanta, poi
diventano duecento. Ma è solo una stima in difetto, perché il tumore colpisce
anche vent'anni dopo e oggi, a 13 anni dalla chiusura dello stabilimento di
Cisterna, ci si ammala più di allora. Fausto Mastrantonio, sopravvissuto dieci
anni ai suoi compagni, è morto il 1° gennaio del 2013. Alla fine di marzo il
Tribunale di Latina riaprirà le porte a un processo bis contro 12 ex dirigenti
della multinazionale, già rinviati a giudizio nei mesi scorsi per altri morti e
altri malati. Quella degli operai Goodyear, che qui ha chiuso i battenti nel
2000 per delocalizzare in Polonia, è l'ennesima silenziosa strage di cui si
rischierà forse di perdere memoria. Il documentario Happy Goodyear, che uscirà
in primavera, racconterà la battaglia di giustizia e di civiltà degli operai
morti di lavoro.
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