giovedì 19 luglio 2012

Vent'anni fa veniva ucciso Borsellino


Vent'anni fa veniva ucciso Borsellino

Il 19 luglio 1992 – una domenica – a Palermo si soffoca per il caldo. Nel pomeriggio le strade appaiono quasi deserte, le persone cercano un minimo conforto nell'ombra delle proprie case. Il pigro silenzio cittadino è rotto di tanto in tanto dal rumore di qualche auto che passa. Intorno alle 17, a graffiare la quiete sono tre auto blindate, una delle quali è una Fiat Croma. Parcheggiano in via Mariano d'Amelio, in una zona centrale della città, davanti a un portone contrassegnato dai numeri civici 19 e 21. Dalla Croma scende un uomo di poco più di cinquant'anni. Sta fumando. Si dirige verso il citofono, schiaccia un campanello. Poco lontano, da un palazzo in costruzione, anche un altro uomo preme un bottone: quello di un detonatore.

Su Fotoblog la storia della foto di Falcone e Borsellino: chi la scattò e cosa successe quelal sera
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Si sono svolti così, vent'anni fa, gli ultimi momenti di vita di Paolo Borsellino, procuratore aggiunto al tribunale di Palermo, storico collaboratore di Giovanni Falcone, capo degli Affari Penali del ministero di Grazia e Giustizia a Roma e simbolo della lotta alla mafia. Un ruolo, quello di icona, che Falcone divide con Borsellino anche in nome di un'amicizia fraterna ed eterna, nata nei vicoli della Kalsa, il quartiere palermitano dove i due magistrati vivono la loro infanzia. Come Falcone, ucciso da una bomba due mesi prima (23 maggio 1992) a Capaci, sull'autostrada che collega il capoluogo con l'aeroporto di Punta Raisi, anche Borsellino è colpito in modo tragicamente eclatante. L'ordigno è una vecchia Fiat 600 imbottita di tritolo, al posto della quale dopo l'esplosione c'è un cratere. In tutta la via – una strada senza uscita – saltano i vetri delle case; decine di automobili sono scaraventate via dall'onda d'urto. I primi giunti sul posto per i soccorsi raccontano di uno scenario “da Beirut”, riferendosi alla capitale libanese dei tempi in cui la guerra civile la martoriava di attentati pressoché quotidiani. Di Paolo Borsellino e della sua scorta – Agostino Catalano, 43 anni; Vincenzo Li Muli, 22; Walter Cosina, 31; Claudio Traina, 27; Emanuela Loi, 24 (la prima donna poliziotto uccisa dalla mafia) – non restano che brandelli di corpo bruciato.

L'attentato di via D'Amelio è il secondo dell'”uno-due” con cui ci si riferisce alla sequenza di colpi che il pugile usa per mandare al tappeto il proprio avversario. Colpi vistosi, messaggi tramite i quali la mafia afferma verso lo Stato una forza che pare invincibile. «Possiamo colpire dove vogliamo» è, non a caso, il commento del boss Giuseppe Graviano all'indomani della strage, la seconda nella sequenza avviata a Capaci pochi giorni prima e proseguita poi con le bombe di Firenze, Roma e Milano nell'estate del 1993. E' il momento peggiore per l'Italia di quegli anni nella lotta a Cosa Nostra, la cui azione criminale si allarga uscendo dal cerchio dei colpi mirati ai magistrati e agli uomini delle forze dell'ordine per investire i cittadini. I quali, in primis a Palermo, si sentono indifesi. Così, i funerali degli agenti di scorta si trasformano in un'arena nella quale i palermitani sfogano la propria rabbia portandola sul crinale della rissa, guidati dagli uomini delle scorte. Al termine della funzione, uno di loro fronteggia il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro (eletto subito dopo l'attentato a Falcone) e il capo della Polizia, Vincenzo Parisi: dopo uno sguardo carico d'odio, urla «Li avete uccisi voi!». E' un nuovo detonatore: la Cattedrale di Palermo si riempie di urla - «Assassini!», «Venduti!», «Fuori la mafia da qui!» -, il Capo dello Stato inciampa sui gradini mentre si pulisce il pantalone dal segno lasciato da un calcio, il premier Giuliano Amato si tappa le orecchie come a proteggersi dal frastuono, il capo della Polizia prende un pugno ed esce tamponandosi il labbro con un fazzoletto.
I funerali di Borsellino, svoltisi qualche giorno dopo per consentire alla figlia più piccola di rientrare da una vacanza in Asia, si svolgono in modo più sereno e meno ufficiale. Una pacatezza che ricorda quella con cui il magistrato accompagnava la propria ferma determinazione. Borsellino, nato a Palermo nel 1940, diventa nel 1963 il più giovane magistrato d’Italia. Quando ha quarant'anni i giornali ne riportano il nome tra i procuratori impegnati in un’inchiesta sui rapporti tra mafia e politica nella gestione degli appalti pubblici. Siamo nel 1980, un anno cruciale per Cosa Nostra, ai vertici della quale salgono i “corleonesi” guidati da Totò Riina; un anno cruciale anche per Borsellino, che avvia la collaborazione con il procuratore capo di Palermo, Rocco Chinnici. L'importanza di quell'incontro è tutta nelle parole della sorella Rita: «In Chinnici Paolo trova la figura paterna che aveva perso quando era giovane». Umanità, rispetto e totale intesa sono le colonne su cui Chinnici costruisce il cosiddetto “pool antimafia”, una squadra di magistrati che con metodi nuovi e migliori si pone l'obiettivo di sconfiggere Cosa Nostra. Le intuizioni sono giuste: Chinnici punta a mettere le mani nelle tasche dell'organizzazione, concentrandosi su conti bancari e appalti. La mafia si sente punta sul vivo, e reagisce con una serie di attentati che culminano il 29 luglio 1983 nell'uccisione dello stesso capo del pool. Borsellino e gli altri colleghi invocano al suo posto una personalità capace e che conosca profondamente il fenomeno mafioso. Arriva così Antonino Caponnetto, sotto la cui guida il “pool” piazzerà i colpi più forti; tra tutti, l'arresto di Tommaso Buscetta, in Brasile nel 1984. Falcone lo convince a confessare, e sui suoi racconti lui e Borsellino istruiscono il noto “maxi processo”, il più grande giudizio penale nella storia della lotta alla mafia.
Il maxi processo prende il via il 10 febbraio del 1986, nell'aula bunker del carcere dell'Ucciardone di Palermo. Un locale costruito ad hoc a causa dell'alto numero di imputati – 475 – che vanno trasferiti dalla prigione all'aula in massima sicurezza. Contro di loro, due uomini: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Nei loro fascicoli riposano i segreti di Cosa Nostra, minuziosamente svelati da Buscetta, grimaldello fondamentale nell'operazione con cui i magistrati hanno scoperchiato “la cupola”, cioè il vertice della mafia. La Corte chiamata a giudicare è formata da un numero doppio di membri rispetto al normale, per il timore che qualcuno possa essere ucciso durante il processo. Che dura 22 mesi, concludendosi con una sentenza della Corte di Assise di condanna a diciannove ergastoli per tutti i componenti della cupola e 2665 anni di carcere ad altri 339 imputati. Cinque anni dopo la Cassazione conferma la sentenza.
Proprio quando il “pool” ottiene il suo successo maggiore, a Palermo cambia il vento. Caponnetto lascia il comando per motivi di salute, e al suo posto il Consiglio Superiore della Magistratura designa il magistrato Antonio Meli. Tutti – componenti e opinione pubblica – si sarebbero aspettati la nomina di Giovanni Falcone. Borsellino è furioso, e per una volta abbandona la propria calma riservatezza rilasciando due interviste (all'Unità e alla Repubblica) in cui afferma: «Fino a qualche mese fa tutto quello che riguardava Cosa nostra passava sulla scrivania di Giovanni Falcone. Ora [...] Meli è diventato titolare del maxi processo. Dubito che il nuovo consigliere possa in un paio di mesi aver acquisito una tale conoscenza del fenomeno mafioso. Al posto di Meli si doveva nominare Falcone per garantire la continuità dell’ufficio. Intanto Cosa nostra si è organizzata come prima, più di prima. […] Ci sono tentativi seri per smantellare definitivamente il pool antimafia dell’ufficio istruzione e della procura di Palermo. Stiamo tornando indietro come dieci o venti anni fa».
Anni dopo - il 25 giugno 1992 – Paolo Borsellino tiene un incontro pubblico alla biblioteca pubblica di Palermo. Non può sapere che non ne terrà più. In quell'occasione torna sulla decisione del CSM e sulle interviste da lui rilasciate. «Rischiai conseguenze professionali gravissime. E forse questo lo avevo messo nel conto. Mi dissi che almeno l’opinione pubblica deve sapere e conoscere. Il pool deve morire davanti a tutti».
Borsellino morirà davanti a tutti tre settimane più tardi. A Falcone era toccato un mese prima

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