giovedì 4 giugno 2015

"Heysel? Mi è rimasta la sensazione di essere stato attaccato a un filo"

"Heysel? Mi è rimasta la sensazione di essere stato attaccato a un filo"

Emilio Targia ricorda la tragedia della finale di Coppa Campioni tra Juve e Liverpool del 1985 vissuta in prima persona: "Basta dire che la gara non andava giocata"

'Heysel? Mi è rimasta la sensazione di essere stato attaccato a un filo'
Redazione Tiscali
A volte una scelta banale può cambiare in parte il tuo destino. Emilio Targia aveva in mano due biglietti per la finalissima di Coppa dei Campioni del 29 maggio 1985: il primo per il tristemente celebre "bloc Z" l'altro per i settori M-N-O. La decisione dell'allora giovane tifoso juventino, ansioso di vedere i suoi idoli Platini, Boniek e Cabrini affrontare i campioni in carica del Liverpool, non può che ricadere sulla curva bianconera. Nel settore Z gli inglesi caricano e provocano incidenti condannando a morte 39 persone, mentre il giovane Emilio diventa un testimone impotente di quell'orrore. A distanza di trent'anni quelle scene sono ancora nitide nella mente del tifoso divenuto poi giornalista. Per cercare di sanare quella ferita, Targia ha affidato alle pagine di un libro il ricordo della tragica notte a Bruxelles. "Heysel è un termine ormai svuotato del suo originario valore. Non è più uno stadio, così come Ustica non è più un'isola, né l'Italicus un treno", scrive il caporedattore di Radio Radicale nel suo libro Quella notte all'Heysel (Sperling & Kupfer, 2015).
Targia, a distanza di tanti anni qual è il ricordo più nitido di quella maledetta finale di Coppa dei Campioni?
"Se il ricordo fosse una foto avrei in testa un lunghissimo rullino da oltre 360 immagini che mi sono rimaste impresse. Ma se dovessi scegliere una immagine che emotivamente mi è rimasta attaccata addosso, un'immagine simbolo questa ricadrebbe sullo sguardo del mio vicino di posto nella curva M-N-O, quella opposta al settore Z. Guardavo gli incidenti e li vedevo piuttosto bene perché avevo con me una super 8. Al mio fianco c'erano un signore sui 55 anni e suo figlio che aveva 10-11 anni. Quando ha saputo la notizia dei primi morti voleva assolutamente andare ad affrontare gli inglesi. Ad un tratto ha lasciato a me, uno sconosciuto, suo figlio e si è avventato sulla rete di recinzione perché voleva assolutamente scavalcare. Pochi attimi di follia e poi si è voltato verso di noi. Ha guardato il figlio, che era diventato bianco dalla paura, è tornato indietro e mi ha chiesto scusa. Era una persona tranquilla, un impiegato di banca, che non aveva mai fatto tafferugli. In lui era prevalso per qualche momento un istinto patriottico o di vendetta misto a voglia di giustizia. Era una cosa folle, ma da questo episodio comprendi bene il clima che si era creato. Se non si fosse giocata la partita, le tifoserie sarebbero venuto a contatto e il bilancio sarebbe stato sicuramente più pesante".
Quindi, anche secondo lei, la partita andava giocata.
"In realtà noi non capivamo bene che cosa stesse accadendo e non avevamo il tempo per ragionare su che cosa fosse più o meno giusto. Ancora oggi, a distanza di trent’anni, c’è qualcuno, che sostiene che la partita non andava giocata, ma ovviamente non era lì. Quando succedono queste cose così gravi e gigantesche prima di esprimere sentenze si dovrebbe riflettere attentamente. Giocare Juve-Liverpool ha salvato la vita di tante persone. Non è stato un gesto poco etico, ma di salvezza".
Lei ha avuto in mano un biglietto per il settore Z, dove si è consumata la tragedia, e poi uno per l’ M-N-O.
"
Io avevo dei biglietti per la curva Z, procurati da un amico di mio padre che stava a Bruxelles. Quei biglietti li vendevano in Belgio ed erano destinati a un pubblico diciamo 'neutrale'. Ma io che allora ero giovane e fanatico dei colori bianconeri volevo andare nel settore riservato ai tifosi della Juve. Un dirigente della Juve mi regalò due biglietti per l’M-N-O ed io regalai ad amici romani quelli del settore Z. Chi ha ricevuto quei biglietti però si è salvato. Per puro caso io non sono finito nella curva Z, ma mi è rimasta la sensazione di essere stato attaccato a un filo".
Qual è stato il rapporto con i tifosi del Liverpool?
"Definirli tifosi è decisamente azzardato. Comunque nel settore Z ci fu anche qualche inglese che si rese conto di che cosa stava accadendo, si pentì e cercò di soccorrere i feriti. Ma è evidente che prevalse la legge del branco. L’alcol poi accentuò la carica di aggressività che era già piuttosto alta. Non dimentichiamoci che già prima della partita gli inglesi avevano spaccato vetrine in centro, avevano rapinato una gioielleria, avevano creato problemi anche nei porti che collegavano l’Inghilterra con l’Europa. Molti di loro entrarono allo stadio senza biglietto e alla fine circa seimila persone avevano occupato un settore che poteva contenerne quattromila. Videro un corridoio di separazione e decisero di occuparlo. Gli italiani iniziarono a scappare e gli inglesi, ingolositi dal poter conquistare il territorio e scacciare gli italiani, decisero di prendere possesso di tutta la curva. Il panico si diffuse tra gli italiani mentre aumentò il livello di aggressività degli inglesi. Questo meccanismo perverso ha provocato tutto ciò che sappiamo. E tutto questo è avvenuto nella totale incapacità delle forze dell’ordine belghe che non erano sempre assolutamente preparate per gestire una situazione del genere".
Tra i 39 caduti di Bruxelles lei ha voluto ricordare il giovanissimo tifoso juventino Andrea Casula.
"Sì. Quando si parla della strage dell’Heysel si tende a riportare, così come accade ad esempio nel caso della Palestina, un sorta di bollettino con dei numeri. Non ci sono voci e non ci sono volti. Per uscire dalla logica dei numeri imposta dai media abbiamo sempre bisogno di un volto e di una storia che spieghi tutto. Quando si parla dell'Heysel si ricade sempre nel numero 39. Qualche volta si ricordano il medico aretino Roberto Lorentini o il fotografo reggiano Claudio Zavaroni, ma una figura che spiegasse tutto il dramma dell’Heysel non poteva che essere quella di Andrea, un bambino che gioca a pallone e che va a vedere la finale di Coppa dei Campioni come viaggio premio. Era doveroso ricordare Andrea attraverso la sua storia e in tal modo far comprendere a qualcuno che cosa sia stato l’Heysel. E’ assurdo come si possa passare dalla gioia e l’innocenza di un sogno ad in un incubo nel giro di dieci minuti. Nell'Heysel un orrore assurdo si abbattuto sui sogni di un bambino".

Nessun commento:

Posta un commento