MAFIE
ALLA ROMANA
di
Andrea Cinquegrani [19/03/2013]
Roma
(e Lazio), anno zero per la lotta alle mafie. Praticamente inesistenti le
inchieste sul versante del riciclaggio, un 416 bis merce rarissima nelle aule
dei tribunali. Come se clan, cosche e ‘ndrine - notoriamente da anni formato
anche esportazione - non abitassero qui, gli appalti fossero i più trasparenti
del mondo, ristoranti e supermercati i più immacolati, per fare solo due
esempi.
Da
alcuni mesi, però, è forse iniziato un nuovo corso. Dopo la nomina del
procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, infatti, la mafia finalmente
esiste, e va contrastata con metodi all'altezza, senza sciocchi negazionismi,
come nello stile di parecchi prefetti, questori e vertici della magistratura in
mezza Italia che - imperterriti - continuano a minimizzare sulla sempre più
pervasiva e cancerogena presenza delle mafie nel tessuto economico, finendo per
controllarne intere fette.
Riciclaggio,
lotta al via
«Siamo
effettivamente all'anno zero e dobbiamo recuperare un forte ritardo, perché è da
una quindicina di anni che le mafie hanno cominciato a riciclare anche a Roma»,
analizza Giuseppe Cascini, ex segretario dell'ANM (Associazione Nazionale
Magistrati), per anni impegnato sul fronte dei reati finanziari e da alcuni mesi
(ossia dall'arrivo di Pignatone) anima della Direzione Distrettuale
Antimafia.
In
un lucido intervento nel corso di un recente convegno promosso a Formia
dall'Associazione Caponnetto sul tema “Mafie, come contrastarle - Il ruolo dei
cittadini onesti”, Cascini ha fatto il punto della situazione. «Per colmare il
gap stiamo intensificando sempre più i rapporti con le altre DDA, in particolare
quella di Napoli, ma anche quelle di Reggio Calabria e Palermo. Va detto che
Napoli è stata spesso costretta ad allargarsi da noi proprio per questa nostra
precedente carenza. C'è molto lavoro da fare perché le mafie sono massicciamente
presenti, a fini di riciclaggio e reinvestimento, nell'economia locale, in
particolare nel terziario». Tra i settori più a rischio, quello del commercio, e
in particolare la ristorazione. «Alcuni osservano - ricorda Cascini - che se vai
a mangiare a Roma in un caso su due rischi di finanziare le mafie. Stiamo
lavorando anche su questo comparto, infatti diverse operazioni hanno riguardato
locali noti. Spesso sono dei segnali a metterci sul chi va là: ad esempio, una
trentina di ristoranti romani contemporaneamente hanno effettuato dei grossi
lavori di ristrutturazione, difficili per normali esercenti in periodi di forte
crisi di liquidità». Continua Cascini: «Il traffico di stupefacenti resta un
grosso business, un forte polmone finanziario, ma occorre intervenire in maniera
molto incisiva su tutti gli investimenti che da lì derivano nell'economia
cosiddetta legale, ed anche nella politica».
E
proprio sulla politica punta l'indice Elvio Di Cesare, segretario
dell’Associazione Caponnetto (il cui presidente onorario da marzo è Antonio
Esposito, presidente della seconda sezione penale della Cassazione). «Le mafie
non sarebbero diventate così potenti se non ci fosse stato uno strettissimo
legame, ormai organico, con tanta politica e tanta impresa sporca, senza
l'intervento attivo di quella zona grigia, o se volete chiamarla borghesia
mafiosa, decisiva per una strutturazione organica delle mafie, ormai diventate
delle potenze economiche di spaventoso impatto e pervasività». E per un efficace
contrasto, Di Cesare indica due terapie: l'attivazione di un “osservatorio
antimafia” tra i Comuni (sempre più esposti nel Lazio alle infiltrazioni), con
la presenza di esponenti attivi nell'azione di contrasto; e, soprattutto, la
creazione, in ogni distretto giudiziario, di una sezione della DDA. «Proprio
perché ci siano gli strumenti adatti per intervenire su simili metastasi -
continua Di Cesare - per evitare che i magistrati siano costretti a capriole
dovendo caso mai catalogare come 416, associazione a delinquere, quello che
invece è un 416 bis». Intanto, per ora, la frontiera investigativa antimafia,
nel Lazio, può contare su un doppio distretto, con una dozzina di magistrati
(comunque sempre pochi) attivi: uno che comprende il sud pontino e la fascia a
ridosso del casertano (targato Casalesi e non solo), l'altro riguardante Roma e
la zona a nord, compresa Civitavecchia (“a forte rischio” per lo scalo i cui
“traffici” fanno gola a molti, in primis la mafia cinese).
Tutta
Roma, clan per clan
Ma
cerchiamo di comporre una rapida mappa di cosche e clan attivi soprattutto tra
Roma e provincia, secondo alcune fresche analisi investigative e comunque
partendo da un dato certo non incoraggiante: ossia la scarsissima propensione
dei cittadini, e in particolare dei commercianti, a denunciare «gli atti
intimidatori subiti» e, specialmente, usura, racket ed estorsioni. Molti -
secondo un report - «sono costretti a consegnare di fatto la gestione delle loro
attività commerciali ai sodalizi criminali, che ne acquisiscono così, in forma
occulta, il controllo. La forza intimidatrice di tali sodalizi è fortissima:
basti pensare che in tutto il 2011 a Roma e provincia sono state presentate solo
38 denunce».
Partiamo
dalla mafia. È impegnata in attività che «spaziano dal traffico internazionale
di stupefacenti al reimpiego di capitali illeciti nei settori commerciali,
immobiliari e finanziari, e al commercio di autovetture». Più nel dettaglio, da
segnalare «la presenza degli Stassi, contigui alla famiglia trapanese degli
Accardo, con interessi in numerosi esercizi di ristorazione». Sul litorale
romano, dal canto suo, si rimbocca le maniche «il gruppo Triassi, collegato alla
nota famiglia Cuntrera-Caruana; e il gruppo Picarella (cosca agrigentina di
porto Empedocle), interessati all'affidamento e alla gestione dei lotti di
spiaggia libera del litorale di Ostia, nonché a gestire il narcotraffico».
Ancora.
«Di recente è stata segnalata nell'area metropolitana la presenza di personaggi,
pregiudicati anche per associazione di tipo mafioso, come Innocenzo Bellocchio e
Francesco Bonarrigo, residenti a San Cesareo, in provincia di Roma, gravitanti
nell'area mafiosa del messinese e legati al noto ex latitante Giuseppe Mulè. A
nord, invece, localizzate a Civitavecchia, sono state riscontrate le attività
delle famiglie gelesi dei Rinzivillo ed Emanuello, interessati all'acquisizione
di subappalti e fornitura di manodopera per la Centrale di Torrevaldaliga Nord».
Senza dimenticare proprio il porto delle brame, quello di Civitavecchia... Non è
finita, perché «gli interessi di alcuni gruppi criminali, collegati alla mafia
siciliana, sono particolarmente indirizzati all'aggiudicazione di lavori
pubblici da effettuarsi su alcune aree della costa laziale, nel campo delle
edificazioni e della cantieristica».
‘ndrine
all'assalto
Passiamo
alla ‘ndrangheta, impegnata fino al collo «negli investimenti immobiliari,
nell'alberghiero, la ristorazione, il commercio di autoveicoli e preziosi, i
traffici di stupefacenti, il gioco d'azzardo». Più in dettaglio, «sono presenti
nella capitale personaggi riconducibili alle famiglie dei Piromalli-Molè-Alvaro,
che reinvestono copiosi capitali in attività commerciali. I vari rappresentanti
di alcune note “famiglie” calabresi, come gli Alvaro-Palamara, hanno concentrato
i loro interessi nel tessuto socio-economico della capitale tramite la
costituzione di società fittizie aventi per oggetto la gestione di bar,
paninoteche, pasticcerie e ristoranti». In particolare, alcuni esponenti del
gruppo Alvaro-Palamara «che nell'arco di pochissimo tempo si sono trasformati da
piccoli artigiani locali ad imprenditori di primissimo livello, hanno
reinvestito ingenti capitali, verosimilmente provenienti da traffici di droga
attuati sull'asse Germania-Italia, comprando esercizi di ristorazione nella zona
di Roma centro».
Ne
sono la prova i sequestri di locali a la page come lo storico “Cafè de Paris” e
“Georg's”, nei cui assetti societari avevano trovato modo di insinuarsi uomini
d'onore delle ‘ndrine. O quello de “L'Antico Cafè Chigi”, punta dell'iceberg di
un piccolo, accorsato impero (comprendente tra l'altro una villa da 29 stanze a
Formello, due appartamenti a Fiumicino, conti correnti e titoli, il tutto per un
bottino da circa 20 milioni di euro) riconducibile a Domenico Greco (azionista
in ben 18 società), ritenuto dagli inquirenti contiguo alla ‘ndrina dei Gallico
di Palmi.
E
proprio dal Tribunale di Palmi arriva la tegola di una condanna in primo grado a
11 anni di galera per concorso esterno in associazione mafiosa sul groppone di
un imprenditore di Mentana, Pietro D'Ardes, titolare della cooperativa di
servizi Multiservice e di altre sigle tuttofare (La capinera s.r.l., Bella mia
s.r.l., Sandalia coop, All Services, quest'ultima per la movimentazone nel porto
di Gioia Tauro), trait d'unione (attraverso un “patto d'impresa”, secondo gli
inquirenti) con gli Alvaro e i Piromalli. Simile il percorso imprenditoriale di
un immobiliarista romano, 32 società nel carniere, due ville a Sabaudia, una a
Taormina, proprietario di un mega edificio nel cuore di Roma, in via di Ripetta,
in parte fittato al teatro Ghione: si tratta di Federico Marcaccini «ritenuto
dalla DDA di Catanzaro il finanziatore delle importazioni di cocaina realizzate
da Bruno Pizzata per conto delle cosche di San Luca».
Dalle
indagini, poi, sono emersi contatti più che borderline con esponenti di rilevo
della cosca Pelle, molto attiva nei riciclaggi in Lombardia. E ancora dalla
Calabria arriva un provvedimento per altri insospettabili imprenditori romani: è
infatti targato Tribunale di Reggio «il sequestro dei beni di Francesco Frisina
(e della moglie Maria Antonia Saccà) e di Alessandro Mazzullo, ritenuti vicini
alle cosche Alvaro di Sinopoli e Gallico di Palmi»; gli stessi «poco tempo dopo
essersi insediati su Roma, erano riusciti a concludere una serie di operazioni
immobiliari e societarie soprattutto nel settore della ristorazione, investendo
ingenti capitali per conto delle cosche calabresi di riferimento».
Nel
mirino dei casalesi
Eccoci,
last but not least, ai clan di camorra. Capaci di mettere in campo - sempre a
Roma e dintorni - «una sorta di joint venture criminale», una sinergia operativa
tra casalesi e la cosca dei Mallardo (originaria dell'hinterland partenopeo,
epicentro il popoloso comune di Giugliano), capace di riciclare e investire
massicciamente in svariati settori dell'economia “legale”, piatto preferito
quello dell'edilizia. È di circa un anno e mezzo fa l'operazione congiunta dei
GICO (i nuclei specializzati contro la criminalità economica delle Fiamme
Gialle) di Roma e di Napoli che ha portato ad un maxi sequestro: circa 900
immobili, 23 aziende commerciali, 200 conti correnti, una sfilza di auto e moto
di lusso, il tutto per un bottino che supera i 600 milioni di euro (operazioni
“Sfregio”, con l'arresto del boss “reggente”, Feliciano Mallardo, e “Caffè
Macchiato”, che ha riguardato tra l'altro la lavorazione e distribuzione del
caffè marca Seddio).
Altre
potenti costole dei Mallardo sono rappresentate dal gruppo Ascione e dalla
famiglia Dell'Aquila. Il primo impiega le sue forze soprattutto nella
compravendita di auto (acquisti all'estero violando le normative IVA, ma anche
una rete di truffe alle assicurazioni) e nell'acquisto di immobili (molti,
situati tra Formia, Itri e Fondi sono stati sequestrati con l'operazione
Tahiti); mattoni a tutto spiano anche nell'attività dei Dell'Aquila che «nella
zona fra Tivoli, Guidonia e Monterotondo avevano realizzato un impero
immobiliare (oltre 150 appartamenti) in cui erano state investite le risorse del
gruppo camorrista», ossia i Mallardo. Partner in diverse iniziative
“imprenditoriali” del capo, Giovanni Dell'Aquila, un altro affiliato dei
Mallardo, Gennaro Antonio Delle Cave.
L'assortimento
è vario, ma la sfera d'influenza è sempre quella dei Casalesi. Così capita ad
Acilia e nell'area del sud pontino, dove sono acquartierati gli Iovine, «il cui
capo famiglia Mario Iovine, nipote del noto boss, ha da tempo creato una vera e
propria base logistica per avviare attività di copertura nell'ambito delle sale
da gioco (videopoker e scommesse on line) e della ristorazione». O nel caso
dell'affiatato tandem Pasquale Noviello-Maria Rosaria Schiavone, marito e
moglie, quest'ultima figlia di Carmine Schiavone (nipote di Sandokan e
collaboratore di giustizia: fu lui nel 1996 ad alzare il velo sui primi maxi
investimenti dei casalesi nel basso Lazio e sui lucrosi traffici di rifiuti
tossici). Nel mirino, soprattutto, imprenditori e commercianti delle zone di
Aprilia, Latina, Anzio e Nettuno.
Non
è finita qui. Perché nei quartieri di Centocelle e Tor Bella Monaca, a Roma, ma
anche nelle zone di Ostia e Ciampino, fa sentire la sua presenza il clan Senese,
capeggiato dal boss Michele, «da lungo tempo inserito a livello apicale nel
tessuto malavitoso della capitale, del quale sono ben noti i legami camorristici
con la famiglia Moccia di Afragola».
Una
lunga militanza, quella di Michele Senese a fianco dei Moccia, risalente
addirittura agli anni ‘80, «per la quale ha militato nella storica
confederazione camorristica denominata Nuova Famiglia». Tra le specialità della
casa, grossi traffici di droga - hashish e cocaina - con Olanda e Spagna.
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