DA
CRAXI A RENZI: L'ILLUSIONE DELL'INDIPENDENZA NAZIONALE SOSTENIBILE
di
comidad
Il
Renzi ultra-occidentale e guerrafondaio del febbraio scorso, quello deciso ad
intervenire in Libia e che aveva promesso un decreto a riguardo per il marzo
successivo, nel giro di tre mesi sembra aver invertito la rotta di 180 gradi,
diventando anch'egli "amico" di Putin, e pregandolo di collaborare alla lotta
contro l'ISIS. La svolta della politica estera italiana sembrerebbe davvero
radicale, se si considera che l'intervento militare in Libia promesso da Renzi
appariva oggettivamente come un modo per contrastare l'influenza che sta
assumendo la Russia sull'Egitto e sul governo libico di Tobruk. La metamorfosi è
avvenuta proprio agli inizi del fatidico marzo, con un
viaggio di Renzi a Mosca, una trasferta che ha assunto quasi i toni del
pellegrinaggio. Nell'occasione Renzi ha deposto un mazzo di fiori per onorare la
memoria di Boris Nemtsov, un oppositore di destra al regime per la cui uccisione
i media occidentali ovviamente incolpano Putin, in base a ciò che impongono gli
inesorabili schemi della propaganda NATO. Non sono mancate osservazioni
imbarazzate da parte di commentatori ufficiali per il fatto che Renzi
incontrasse un Putin con le mani ancora sporche di sangue, e ciò è stato
giustificato come realpolitik.
La
visita di Renzi è stata ricambiata nei giorni scorsi da Putin, che ha onorato un
Expo di Milano altrimenti ignorato da tutti. Nell'occasione Putin e Renzi hanno
invocato insieme il ritiro delle sanzioni economiche contro la Russia. In questi
giorni i media italiani hanno ricordato il danno che le sanzioni contro la
Russia stanno infliggendo alle esportazioni italiane. Messa così la questione
appare un po' troppo generica, poiché è difficile pensare che il governo si
sarebbe lasciato commuovere dalle difficoltà della nostra economia, dato che si
tratta dello stesso governo che, mentre parla di "crescita", compie continue
scelte depressive. La realtà è che ad essere coinvolti negli affari
con la Russia, sono i residui colossi dell'economia italiana, e non si
tratta soltanto del solito ENI, dato che anche Finmeccanica trova nella Russia
uno dei suoi principali clienti. Ma c'è anche l'ENEL, della quale l'opinione
pubblica italiana ignora il ruolo di multinazionale. Oggi l'ENEL è la maggiore
azienda elettrica in Spagna, mentre in Russia gestisce quattro centrali, con una
potenza installata di 9.107 Mw ed una produzione di 42,4 Twh. Si tratta di quote
non determinanti, viste anche le dimensioni della Russia, ma che delineano già i
contorni di un business significativo ed in via di ulteriore crescita, poiché si
tratta di utilizzare in loco materie prime come petrolio, e soprattutto gas, che
sarebbero difficili da trasportare, mentre l'energia elettrica si trasporta
molto più facilmente.
Tra
le grosse aziende italiane che hanno interessi in Russia c'è persino la
multinazionale dell'edilizia Salini Impregilo, proprio quella della mega-truffa
del ponte sullo Stretto di Messina. Nonostante questi precedenti poco
rassicuranti (o forse proprio grazie a quelli), Salini Impregilo è riuscita a
conquistare addirittura l'appalto
per la metropolitana di San Pietroburgo.
In
Italia dunque opera una sostanziosa lobby contraria alle sanzioni contro la
Russia, una lobby che è riuscita a condizionare il governo Renzi, così come
aveva condizionato tutti i governi precedenti. Ma al peso che ENI, Finmeccanica,
ENEL e Salini Impregilo vantano in Italia, non corrisponde altrettanto potere in
campo internazionale, poiché si tratta pur sempre di multinazionali di serie B
rispetto a quelle anglo-americane. Sta di fatto perciò che lo stesso Renzi non
appare per niente in grado di sfuggire alla disciplina occidentalistica. Dal G7
tenutosi in Germania poco più di una settimana fa, è stato annunciato da Obama
un ulteriore inasprimento
delle sanzioni contro la Russia, ed il governo italiano si è allineato con
la coda tra le gambe. A proposito di questo G7, i media non hanno mancato di
fornirci un dettaglio prezioso, e cioè che Obama avrebbe suggerito una ricetta
per superare la crisi economica, ricetta che consisterebbe nell'aumentare i
posti di lavoro. Per questa tautologica trovata, Obama, dopo aver già ottenuto
il premio Nobel per la pace, ora potrebbe presentarsi a riscuotere il Nobel per
l'economia, e con la stessa attendibilità. Visto il livello penoso dei
pronunciamenti di questi vertici internazionali, si comprende che essi non hanno
altro scopo che fare propaganda e ricompattare il conformismo
occidentalistico.
La
contraddizione di Renzi è stata sottolineata in un
articolo di Renato Brunetta su Il Giornale. Brunetta ha messo su un
confronto tra l'insipienza di Renzi e la presunta lungimiranza del Buffone di
Arcore, sempre inesauribile a chiacchiere, in base alle quali si è presentato
come un inflessibile avversario delle sanzioni. Il Buffone inoltre sarebbe
ancora oggetto di caldi abbracci da parte di Putin, a fronte della freddezza
riservata a Renzi.
Dall'articolo
però risulta soprattutto l'insipienza di Brunetta, il quale dice di auspicare
una politica estera ispirata agli interessi del nostro Paese, ma poi non mette
in discussione nessuno dei vincoli che la impediscono, a cominciare
dall'appartenenza dell'Italia alla NATO, la quale, oltre che un'istituzione
militare, è la centrale del lobbying delle multinazionali anglo-americane. Il
Buffone di Arcore è ancora adesso presentato dai media della destra come il
campione dell'indipendenza energetica dell'Italia, un'indipendenza nazionale
sostenibile, attuata cioè nel rispetto dei trattati e delle alleanze
occidentali. Il mito si alimenta di una ricostruzione romanzata sulla caduta
dello stesso Buffone, dimenticando di quando il presidente Napolitano, alla fine
del 2010 salvò il suo governo rimandando il voto di sfiducia che avrebbe sancito
l'uscita dalla maggioranza del nuovo partito di Gianfranco Fini. Napolitano
giustificò quell'atto d'imperio sul Parlamento con la necessità di approvare in
tempo la legge finanziaria, ma di fatto in tal modo si fornì al governo il tempo
per ricomprarsi una maggioranza.
Neanche
il mito dell'indipendenza nazionale sostenibile può essere considerato però una
trovata originale del berlusconismo, dato che lo stesso mito risale agli anni
'80, cioè al governo Craxi. L'eclisse dell'antimperialismo che, sino alla metà
degli anni '70 era stato una bandiera del PCI, determinò la creazione di uno
spazio politico - o meglio, propagandistico - alla destra dello stesso PCI, uno
spazio che venne riempito con l'idea, o con l'illusione, di un'indipendenza
nazionale nel quadro dell'appartenenza occidentale dell'Italia. Il Craxi di
Sigonella e dell'amicizia con il leader palestinese Arafat sembrò dare sostanza
al mito, che però naufragò ben presto di fronte alle scelte craxiane di
accettare l'installazione dei missili Pershing e Cruise, e poi, all'inizio degli
anni '90, di aderire entusiasticamente alla prima guerra del Golfo. Sulla caduta
di Craxi si sono attuati gli stessi ricami romanzeschi che oggi ci vengono
propinati a proposito della defenestrazione del Buffone di Arcore. Sta di fatto
però che la liquidazione dell'intera classe politica della cosiddetta Prima
Repubblica era funzionale alle privatizzazioni imposte dal trattato di
Maastricht, un trattato firmato da quella stessa classe politica. Ai tempi di
Craxi c'erano ancora la sovranità monetaria (sebbene già sottomessa al Sistema
Monetario Europeo) ed anche un esercito di leva, ma scelte di indipendenza non
ve ne furono, se non quelle dettate dagli affari di ENI e Finmeccanica,
esattamente come avviene ora.
Lo
scorso anno le scaramucce polemiche di Renzi con il presidente della Commissione
Europea, Juncker, hanno di nuovo alimentato un fervore mediatico circa la
prospettiva di uno slancio negoziale italiano che mettesse fine alla disciplina
ai trattati. Il tutto si è risolto in una bolla di sapone, poiché lo stesso
Renzi ha sempre ribadito la necessità di sottoporsi ai vincoli di bilancio in
nome della "credibilità". In effetti, per essere davvero credibile, Renzi
avrebbe dovuto polemizzare meno ed ignorare silenziosamente i vincoli europei al
bilancio.
La
lobby nostrana degli affari con la Russia è in grado di determinare cicliche
deroghe e furbizie nei confronti della disciplina "occidentale", ma non riesce a
cambiare il quadro complessivo della politica estera italiana, che è di
continuità occidentalistica e disciplina NATO. Ciò era vero ai tempi dei governi
di Craxi e del Buffone di Arcore, ma anche di quelli di Prodi, Letta e dello
stesso Renzi. Così come non è mai veramente esistito a suo tempo un "asse"
Berlusconi-Putin, allo stesso modo non si intravede niente del genere con
l'attuale governo.
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