lunedì 8 ottobre 2012

Economia sociale decisiva (ma chi ha potere guarda altrove)


Economia sociale decisiva
(ma chi ha potere guarda altrove)

Mentre si continua ad annunciare e ad attendere la ripresa dall’economia “che conta”, in Italia la piccola economia sociale e civile cresce veramente. Il variegato (e ricco) mondo cooperativo, dell’impresa sociale, del privato–sociale, negli ultimi anni ha registrato significativi successi sia in termini di occupazione, sia di Pil. Secondo l’ultimo rapporto (in uscita) del Comitato economico e sociale europeo, il numero di lavoratori nell’economia sociale italiana dal 2002 al 2010 è aumentato di circa il 60%, e oggi occupa oltre 2.220.000 persone, contribuendo a circa il 10% del nostro Pil, valori tra i più alti in Europa. E non è poco, se pensiamo che la Fiat occupa, direttamente e con gli indotti, meno del 5% del totale dell’occupazione generata dall’economia sociale italiana. L’economia sociale e civile è un muro maestro dell’intera economia europea, la cui anima è ancora la cooperazione (un’anima che presto potrebbe perdere se non inverte la deriva di omologazione alle imprese capitalistiche, e ai loro livelli di remunerazione dei top manager). La cooperazione ha offerto in questi due ultimi secoli un contributo fondamentale al modello europeo di economia di mercato, che è diverso da quello statunitense o cinese anche per il peso che hanno in esso la dimensione sociale e la mutualità, espressione del principio di fraternità e delle sue radici cristiane e cattoliche. L’economia sociale, poi, oltre ai posti di lavoro crea inclusione e riduce la diseguaglianza, la malattia più grave delle nostre economie capitalistiche. La buona crescita dell’economia sociale oggi si sta, tuttavia, fermando. E questo per due principali ragioni: i tagli al welfare e l’accesso al credito. I tagli e l’inasprimento della tassazione stanno colpendo duramente l’economia sociale.

Molte di queste imprese, occupandosi direttamente di beni meritori come la cura e l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, vivono grazie a un’alleanza complessa con famiglie, società civile, imprese e pubblica amministrazione. Il “patto di stabilità” colpisce in Italia poco o affatto i ricchi mentre rischia di essere devastante per l’economia sociale e civile, che non ha dalla sua parte i poteri forti che trattano e negoziano nei luoghi che contano. E così quando bisogna decidere dove tagliare si colpisce Lazzaro, e si lascia prosperare il “ricco epulone” con le sue rendite – continuo ad essere allibito, e in certi momenti sdegnato, per la perdurante incapacità di chi regge il timone in Italia e in Europa di capire che il vero “nemico” delle nostre economie e delle nostre società sono le rendite, non i veri imprenditori che continuano a essere trattati come potenziali evasori, mentre i rentiers ringraziano, sorridendo. C’è poi il problema del credito alle imprese, come ha ricordato con forza anche il presidente Monti. Tra queste imprese che non hanno adeguato accesso al credito, e quindi soffrono e muoiono (falliscono le imprese ma, non dimentichiamolo mai, continuano a morire anche imprenditori e lavoratori), ci sono le piccole e medie imprese e ci sono anche le imprese sociali. Queste, se misurate con i parametri di Basilea e della finanza speculativa, risultano spesso inaffidabili – anche perché questi parametri non sono stati pensati per le piccole e medie imprese, e tantomeno per le imprese sociali. Peccato che in realtà, al di là degli algoritmi, i dati veri ci dicono che queste imprese sono molto più affidabili di tante multinazionali con ottime certificazioni di bilancio, perché la vera fiducia (quella che poi viene ripagata e crea sviluppo) nasce dai territori, e la può concedere solo chi vive in essi, a contatto con la gente, e non in lontani centri decisionali di fronte agli schermi dei pc. Le Banche di credito cooperativo, e altre banche più attente alla dimensione etica e al mondo non profit, già fanno molto, ma non basta.

Occorre fare di più e meglio. Oggi il sistema bancario è troppo malato e intossicato da anni di gestione sbagliata per poter compiere le scelte giuste nel concedere credito. Troppi dirigenti bancari hanno perso il contatto con le imprese vere, con i volti della fatica e del lavoro, e quindi non sanno più distinguere le garanzie vere da quelle finte e di carta, e sbagliano continuando a non concedere credito a chi lo merita e ne ha vitale bisogno, e magari a erogarlo a chi non lo merita e produce danni. E così non crescono né le buone imprese né la buona banca. Che fare?

Occorre riportare il sistema bancario alla sua funzione di interesse pubblico. Questa crisi dovrebbe produrre una riforma radicale del sistema bancario (che di fatto ancora resta quello pre–crisi). Una riforma che, oltre a fissare una chiara distinzione tra banche d’affari e banche ordinarie, dovrebbe prevedere una maggiore prossimità territoriale del processo decisionale, e, tra l’altro, far sì che nei Cda delle banche siedano rappresentanti veri della società civile, riportando così i territori nelle banche e le banche nei territori. A chi rispondono oggi i Cda delle banche? Ai soci? Ai fondi di investimento?

Peccato che siano state quasi tutte “salvate” o, comunque, puntellate con soldi pubblici, cioè dei cittadini, e a questi debbono tornare prima di tutto a rispondere. Riportando i territori e la gente nelle banche, e le banche nei territori, si renderebbe efficace e concreto quel “principio di sussidiarietà” che sta alla base dei trattati politici europei e che, però, le istituzioni e i trattati finanziari stanno tradendo. La politica economico–finanziaria europea è infatti basata su una “sussidiarietà a ritroso”: le scelte si fanno a Francoforte e a Bruxelles e poi si applicano come dogmi nelle realtà nazionali e locali, operando così un ribaltamento e un tradimento grave della sussidiarietà, cui stiamo assistendo in modo troppo passivo.

Per cambiare tutto ciò, e far continuare a crescere l’economia sociale, e con essa le tante buone imprese e banche territoriali che continuano a sostenere l’Italia, ci sarebbe bisogno di una forza delle idee e delle istituzioni che non si intravvedono né in Italia né in Europa. Ma possiamo e dobbiamo continuare a desiderarla, volerla, chiederla. Per ottenerla
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