DROGARSI
PER LAVORARE: LA “NEO-SCHIAVITÙ” DEI BRACCIANTI SIKH ALLE PORTE DI
ROMA
Premessa.
Un esercito silenzioso di uomini piegati nei campi a lavorare a volte tutti i
giorni senza pause. Raccolta manuale di ortaggi, semina e piantumazione per 12
ore al giorno filate sotto il sole, chiamano padrone il datore di lavoro,
subiscono vessazioni e violenze di ogni tipo. Quattro euro l’ora nel migliore
dei casi, con pagamenti che ritardano mesi, e a volte mai erogati, violenze e
percosse, incidenti sul lavoro mai denunciati e “allontanamenti” facili per chi
tenta di reagire. Persone che per sopravvivere ai ritmi massacranti e aumentare
la produzione dei “padroni” italiani sono letteralmente costretti a doparsi con
sostanze stupefacenti e antidolorifici che inibiscono la sensazione di fatica e
stanchezza. Una forma di doping vissuto con vergogna e praticato di nascosto
perché contrario alla loro religione e cultura, oltre a essere severamente
contrastato dalla propria comunità. Eppure per alcuni lavoratori sikh si tratta
dell’unico modo per sopravvivere ai ritmi di lavoro imposti, insostenibili senza
quelle sostanze.
È
la drammatica condizione che vivono molti uomini della comunità sikh dell’Agro
Pontino, alle porte della Capitale. Ai margini delle strade che circondano il
Parco Nazionale del Circeo, luogo di incontro di ecosistemi, biodiversità,
storia, leggende e di villeggiatura della “Roma bene”, della politica e
dell’imprenditoria, migliaia di “nuovi schiavi” vedono scorrere la loro vita
praticando un lavoro faticoso, disumano, inimmaginabile per una società che si
definisce civile e un Paese democratico. In un’area dove la presenza delle mafie
è radicata anche nel mondo agricolo e imprenditoriale, che vede spesso dominare
il lucroso business delle ecomafie, favorito da intimidazioni a istituzioni,
imprenditori, forze dell’ordine e a magistrati, si consolida con metodi antichi
e violenti la nuova schiavitù: esseri umani umiliati, sfruttati, non pagati e
costretti a doparsi per accrescere i profitti del padrone.
Una
comunità che per cultura, religione e indole risulta accogliente, pacifica e
dedita al lavoro, che subisce in silenzio lo sfruttamento cui è sottoposta, che
auspica l’intervento delle istituzioni per fermare un sistema che
implicitamente, e a volte esplicitamente, impone sostanze dopanti ai suoi nuovi
schiavi, con danni alla salute, alla dignità personale, all’identità e integrità
dell’intera comunità.
Una
nuova forma di riduzione in schiavitù intercettata da In Migrazione
intervistando i braccianti indiani nella zona agricola in provincia di Latina:
l’assunzione di sostanze dopanti per non sentire la fatica e il dolore, per
sopportare meglio la malattia, per osservare i ritmi imposti dal padrone e
riuscire a sopravvivere.
Quella
dell’agro pontino è la seconda comunità sikh d’Italia per dimensioni e rilievo.
La richiesta di forza-lavoro non qualificata e facilmente reperibile da
impiegare come braccianti nella coltivazione delle campagne ha incentivato la
migrazione e convinto molti sikh a stabilizzarsi nelle provincia di Latina.
Secondo le stime della CGIL la comunità arriva a contare ufficialmente circa
12.000 persone, sebbene sia immaginabile un numero complessivo intorno alle
30.000 presenze. In Migrazione si è occupata in passato delle condizioni di
lavoro dei braccianti agricoli di origine punjabi nell’agro pontino con il
dossier “Punjab, fotografia delle quotidiane difficoltà di una comunità migrante
invisibile”. Un’indagine che già ne aveva messo in luce le condizioni
degradanti, portando a conoscenza episodi di violenza e sfruttamento attraverso
le testimonianze dirette dei braccianti indiani. Un lavoro, quello della
raccolta delle testimonianze, mai terminato.
Nasce
così questa seconda istantanea sulla realtà socio-lavorativa e sulle strategie
di sfruttamento che uomini senza scrupoli praticano con sconvolgente cinismo.
L’auspicio è che, insieme agli interventi repressivi delle forze dell’ordine, si
possa sviluppare una riflessione qualificata da parte di tutti i soggetti
interessati, a partire dalla comunità sikh pontina, per promuovere politiche
volte a sconfiggere lo sfruttamento, il caporalato, il sistema di tratta che
caratterizza questa migrazione e i troppi speculatori che sulla vita dei
braccianti indiani hanno fondato il loro lucroso business.
Dopati
per sopravvivere. Svegliarsi quando ancora il sole non è sorto e andare a piedi
o in bicicletta nei campi. Restare piegati fino a sera per raccogliere ortaggi,
caricare cassette, preparare il terreno per la piantumazione, senza pause, senza
alcuna precauzione per le sostanze chimiche usate in agricoltura, spesso
nell’illegalità, comunque sfruttati e ridotti a volte al silenzio. Un lavoro
usurante fatto anche sette giorni su sette sotto il sole cocente come sotto la
pioggia. Una routine dello sfruttamento continua che genera frustrazione,
prepotenze e un lucroso business in mano a spregiudicati sfruttatori e a volte
anche a neoschiavisti e mafiosi. La sera la schiena, il collo e le mani che
fanno male, gli occhi arrossati dal sudore, dalla terra e in alcuni periodi
dell’anno anche da pesticidi usati senza le dovute precauzioni e cautele; eppure
non ci si può fermare. Nonostante il tempo che passa, per molti lavoratori
indiani si resta costretti dalle contingenze sociali e da una legislazione che
non agevola l’emersione né la denuncia, a condurre ancora la medesima vita di
sfruttamento e prepotenze subite, consapevoli del fatto che non si può perdere
il lavoro né il misero salario comunque indispensabile per sopravvivere, pagare
l’affitto e inviare le rimesse necessarie alla famiglia ancora in Punjab.
Intanto il padrone chiede di lavorare sempre più ore, con sempre maggiore
intensità. La soluzione che alcuni hanno trovato per sopportare le fatiche
quotidiane consiste nell’assunzione di alcune sostanze dopanti e antidolorifiche
necessarie per non sentire il dolore e andare avanti. Non si tratta di droghe
per il gusto dello “sballo”, per divertirsi o provare un’esperienza inebriante:
si tratta di lavoratori costretti a doparsi per reggere un carico di lavoro che
non può diminuire e che è totalmente immerso in un sistema di vessazioni
continue e a volte spietate.
Emerge
chiaramente dai racconti una nuova frontiera dello sfruttamento: dopare i propri
“schiavi” per aumentare la produzione e il profitto.
“Io
lavoro 12-15 ore a raccogliere zucchine o cocomeri o con trattore per piantare
altre piantine. Tutti i giorni anche la domenica. Io non credo giusto così.
Troppa fatica e pochi soldi. Perché italiani no lavorano così? Dopo un po’ io e
anche altri indiani troppo male a schiena, male mani, collo, anche agli occhi
perché hai terra, sudore, chimici. Sempre tosse, mattina dolore troppo a
schiena. Tu capisci? Ma io devo lavorare e allora prego Signore e vado ancora
tutti i giorni a lavorare in campagna da padrone. Lui bravo ma paga poco e
lavoro troppo. Lui no tratta male me ma dice sempre lavora ancora e domani
ancora. Sempre vuole lui che io lavora. Anche domenica. Ma io uomo di carne no
di ferro. Allora dopo sei/sette anni di vita così, che fare? No lavoro più? Io e
amici prendiamo piccola sostanza per non sentire dolore. Prendiamo una o due
volte quando pausa da lavoro. Poi andiamo a lavorare nei campi senza dolore. Io
prendo per non sentire fatica e lavorare e poi prendere soldi fine mese.
Altrimenti per me impossibile lavorare così tanto in campagna. Tu capisci?
Troppo lavoro, troppo dolore a mani”. B. Singh
“Noi
sfruttati e non possiamo dire a padrone ora basta, perché lui manda via. Allora
alcuni indiani pagano per piccola sostanza per non sentire dolore a braccia, a
gambe e schiena. Padrone dice lavora ancora, lavora, lavora, forza, forza, e
dopo 14 ore di lavoro nei campi come possibile lavorare ancora? In campagna per
raccolta zucchine indiani lavorano piegati tutto il giorno in ginocchio. No
possibile e sostanza aiuta loro per vivere e lavorare meglio. No tutti così.
Solo pochi indiani prendono quella sostanza per non sentire dolore. Ma a loro
serve per arrivare a fine mese e prendere soldi per famiglia. Tu capisci?”. K.
Singh
“Io
e amici qualche volta prendiamo sostanze per lavorare. Io so che non è giusto.
Ma senza sostanza io mattina no lavoro o faccio troppa fatica. Se io no lavoro,
padrone no paga me e io come faccio vivere mia famiglia? Come pago affitto casa?
Io voglio cambiare lavoro ma crisi e o lavori così in campagna o no lavori. Io
voglio andare via da qui. No piace tutto questo. Capisci tu?”. M. Singh
“Padrone
sfrutta troppo e noi come andiamo avanti? Qui siamo soli, senza soldi, con
padrone che dice sempre vieni a lavoro, vieni a lavoro, anche domenica e così
fatica, solitudine, no parla lingua italiana bene. È facile prendere specie di
droga. Che non è droga vera come prendono italiani. È piccola sostanza che serve
per non sentire dolore. È sostanza forte ma serve perché aiuta a lavorare bene
come vuole padrone nostro. Spendere soldi così per no sentire fatica e
lontananza da India e da famiglia”. N. Singh
“Io
vergogno troppo perché mia religione dice no questo. No buono per sikh. È
vietato da nostra bibbia. Ma padrone dice sempre lavora e io senza sostanze no
posso lavorare da 6 di mattino alle 18 con una pausa solo a lavoro. Io so che no
giusto ma io ho bisogno di soldi. Senza soldi io no vivo in Italia. Tu
riusciresti? Padrone dice lavora e io prendo poco per lavorare meglio e non
sentire dolore e fatica perché io devo lavorare. Tu mai lavorato in campagna per
15 ore al giorno?”. L. Singh
Il
mercato del doping contro la fatica dei braccianti Sikh. Le sostanze dopanti,
probabilmente più d’una, sembrano siano vendute al dettaglio anche da alcuni
indiani, peraltro molti di loro recentemente arrestati da diverse operazioni
delle forze dell’ordine. Dalle storie che In Migrazione ha raccolto emerge, come
era prevedibile, come il “traffico” sia saldamente in mano a italiani senza
scrupoli e spregiudicati variamente organizzati con collegamenti, probabilmente,
anche con l’estero. Questo mercato si fonda su una “domanda” che non nasce dalla
comunità sikh, ma dai ritmi di sfruttamento e di lavoro.
“Droga
io credo che no viene da India. Come fa indiano a portare tutta quella droga da
India con aereo e passare controlli di carabinieri, dogana. A Roma c è anche
cane poliziotto, difficile passare. No, io no credo che droga viene da India. Io
credo che droga viene da campi italiani, forse a Latina o Nord Italia, non so.
In campagna c è tanta terra nascosta, sotto serre, in aziende lontane. Forse lì.
Ma io non so. Indiano non può produrre in serra o terra del proprietario. Quella
è di padrone italiano”. N. Singh
“Italiano
vende a indiano oppure sai che fanno, italiano dà a indiano che vende e poi dà
soldi a italiano padrone. Io sentito da altri indiani tanti anni fa”. H.
Singh
“Io
abito a Brescia ma lavorato qui dieci anni e so che droga gira troppo.
Soprattutto italiani giovani danno a lavoratori indiani e poi prendono tanti
soldi. A Brescia io mai visto questa droga ma qui sì. Può darsi che anche
indiano porta da India ma troppo difficile perché qui tanta droga e poi in India
c’è controllo e ancora più in Italia a volte anche con cani in frontiera. Come
possibile che cane no sente odore di droga? Io credo che droga cresce in Italia
e poi data a qualche indiano scemo per dare a altri indiani. Molti prendono per
lavorare mattina e pomeriggio perché troppa fatica in agricoltura. No buono
così”. K. Singh
“Alcuni
indiani, soprattutto giovani in campagna, prendono quella sostanza e poi vendono
anche perché così loro non sentono fatica, poi fanno anche un po’ di soldi e poi
sera o pomeriggio stanno ancora bene per uscire e loro no stanchi. Capisci? Io
non so da dove vengono sostanze. Alcuni anche da India, altri comprano da
italiani. Io non so”. S. Singh
“Conosco
sì persone che prendono sostanza. Prendono da italiani che vendono loro e loro o
danno a amici e prendono quando lavorano come thè. Capisci? Mettono in acqua
calda e poi prendono. Si può anche mangiare ma fa più male. Male a stomaco, a
gola. Sono soprattutto giovani. Vecchi come me no prendono sostanza perché io so
che Dio no vuole e che no è buono”. H. Singh
“Io
so sì di questa brutta storia, di sostanza, come dite in italiano, droga. Viene
italiano che porta tanta droga a gruppo di indiani che prendono per lavoro e poi
anche a casa. No buono così. Italiano prende soldi e indiano sta male. Già
indiano no viene pagato da padrone, poi dare anche soldi a italiano per droga e
poi per religione sikh droga no possibile”. A. Singh
Una
ferita nella comunità. L’assunzione di sostanze di qualunque tipo (dalle
sigarette a qualunque sostanza stupefacente o dopante) è severamente proibita
dalla religione sikh e dunque condannata senza remore. Questo è il principale
motivo per cui è davvero difficile riuscire a farsi raccontare con chiarezza
l’uso e le modalità di approvvigionamento di questa sostanza. Se per alcuni
braccianti doparsi è una necessità di sopravvivenza, questa pratica rischia di
lasciare profonde cicatrici in una comunità che nel rispetto delle tradizioni e
della propria filosofia di vita fonda le sue radici e la sua stessa identità.
Una vergogna che rischia di isolare chi cade in una sorta di dipendenza.
L’utilizzo del doping da parte di alcuni lavoratori sikh rischia di alterare
abitudini e dinamiche di una comunità fiera e coesa, inserita in un tessuto
sociale che non offre servizi per l’inclusione ma che invece spesso manifesta
sentimenti intolleranti. Essere emarginati dalla comunità significa per molti
sikh restare soli in balia di uno sfruttamento brutale e di una vita dura, senza
dignità. Sostanze dopanti che nel tempo portano alla dipendenza, con pesanti
effetti sulla salute delle persone. Se in chi ne fa uso prevale la vergogna di
disattendere i dogmi religiosi, chi accetta di parlarne si divide tra la secca
condanna e un sentimento di giustificazione per i connazionali che cercano
comunque di rendere onore a un altro principio alla base della religione sikh:
lavorare seriamente e con onestà.
“Alcuni
prendono perché fanno troppa fatica nei campi, io credo no sikh ortodossi. Se
noi no sfruttati allora niente droga, perché cultura e religione sikh dice no
droga, no fumo, no alcool, no carne. Capisci? Per sikh no giusto droga o fumo.
Ma se devi lavorare e sei vecchio, o hai malattia, o se sei stanco e hai male a
ossa, a schiena, dolore tanto, come fai? Allora sostanza aiuta. No tutti
prendono solo alcuni ma c’è sicuro”. R. Singh
“Io
no piace di parlare di droga, perché io bravo ragazzo. Capito? No come alcuni,
soprattutto italiani, che bevono, fumano, dicono parolacce. Mia religione dice
che no buono così. Però, tu ascolta me bene. Capisci me. Io in Italia da 10
anni. Qui solo lavoro in agricoltura con padrone tutto il giorno. Tu capisci tu
sai che significa?”. M. Singh
“Io
no droga, mai. Religione sikh dice no droga, no fumo, alcool, no pesce, no uova
e no carne. Io vero sikh e vero sikh no prende droga. Indiano che prende droga è
poveraccio e poi padrone fa lavorare troppo”. K. Singh
“No
visto perché io no fumo e no drogo e sono lontano da droga. Io voglio essere
libero. Ma capisco anche poverelli indiani sfruttati in campagna. Il problema è
quello. Padrone sfrutta troppo e loro come vanno avanti? Qui loro soli, senza
soldi, con padrone che dice sempre vieni a lavoro, vieni a lavoro, anche
domenica e così fatica, solitudine, no parla lingua italiana. È facile prendere
droga. Spendere soldi per droga per no sentire fatica e lontananza da India e da
famiglia. Però solo pochissimi prendono droga contro fatica eh... no tutti
indiani... solo pochissimi”. B. Singh
“Io
no fumo e no prendo sostanze. Io no voglio. Ma io so che c è troppa droga in
giro tra indiani che dà loro italiani per fare tanti soldi. Indiano prende per
lavoro, ma poi usa anche a casa dopo, perché dopo un po’ lui vuole sempre
sostanza. Brutta cosa”. H. Singh
“Alcuni
indiani prendono sostanza. Per lavorare meglio e poi quando stanno a casa. Io
conosco amico che poi è stato male. Ora lui tornato in India. Sempre lui aveva
vomito perché troppo prendeva droga. A me no piace droga. Troppo gira la testa.
Poi come guidi tu macchina? Prima gira la testa, poi fa male troppo lo stomaco.
Io conosco che così è male droga”. S. Singh
“Io
conosco amico che ha preso droga. Lui troppo male per stomaco e poi gira testa.
Perché droga fa male. Primo Dio no vuole, poi fa male perché lui vomita sempre,
poi gira testa, male stomaco. Lui prende perché lavora tanto in agricoltura e
poi prende anche sera perché troppo stanco. A volte anche con amici. No giusto
così. Poi pericoloso troppo perché prende carabinieri e porta via. No buono
così. A me no piace”. F. Singh
Un
grido d’aiuto. La comunità sikh dell’Agro Pontino è molto preoccupata per questi
segnali della nuova frontiera dello sfruttamento connesso al doparsi per
sopravvivere nei campi. Un’iniezione di sostanze stupefacenti mai vissuta nella
comunità, con un contesto di sfruttamento che incentiva la diffusione di doping,
per alcuni braccianti vissuta come un farmaco salva-vita. Una comunità che si
misura con un problema nuovo e grande, con pochi strumenti per intervenire, se
non quello di chiedere aiuto alle istituzioni. Non quindi una difesa a priori
dei membri della comunità, quanto la richiesta esplicita di fermare un traffico
pericoloso, prendendo anche i sikh eventualmente coinvolti. Per questo la
comunità indiana plaude alle azioni delle forze dell’ordine per arginare il
fenomeno, come avvenuto alla fine di gennaio, quando sono stati arrestati alcuni
connazionali e sequestrati 10 chili di capsule d’oppio.
“Giovani
prendono perché no conosco e poi si sentono più forti. Soprattutto prendono per
lavoro nei campi. Io dico che giusto che carabinieri prendono loro e portano
via. Giusto perché droga no buona. Devono prendere italiano e indiano che compra
droga e portare via in carcere a Roma. Così bene. Noi no vogliamo droga. Droga
pericolosa e carabinieri devono prendere con manette e portare via”. B.
Singh
“Io
contento che carabinieri preso indiani con droga. Droga no buona ma indiani no
portano droga ma danno loro italiani che mettono piantina in terra e poi danno a
alcuni indiani. Alcuni indiani prendono per bere e no sentire fatica nei campi.
Io mai preso droga. Però conosco amici che prendono mattina e poi pomeriggio per
lavorare tanto e poi però stanno troppo male. Male pancia e anche male testa.
Troppo pericoloso anche perché poi indiani vanno in bicicletta e quando presa
troppa droga è pericoloso per macchina perché fanno incidente. Io abito a
Brescia ma lavorato qui dieci anni e so che droga gira. Soprattutto italiani
giovani danno a lavoratori indiani e poi prendono tanti soldi. A Brescia io mai
visto questa droga ma qui sì. Può darsi che anche indiano porta da India ma
troppo difficile perché qui tanta droga e poi in India c’è controllo e ancora
più in Italia a volte anche con cani. Come possibile che cane no sente odore di
droga? Io credo che droga cresce in Italia e poi data a qualche indiano scemo
per dare a altri indiani. Molti prendono per lavorare mattina e pomeriggio e
anche sera quando camion arriva tardi da Germania. No buono così”. J. Singh
“Carabinieri
portato via indiani e è giusto però anche italiano altrimenti italiani trova
altri poveri indiani e tutto uguale prima. Vero problema è che padrone no paga
bene indiano, indiano allora povero, senza soldi da mandare in India e poi
troppo fatica per lavorare in agricoltura a raccogliere cocomeri, poi zucchine,
poi pomodoro e poi prende droga per non stancare. Tu capisci?”. P. Singh
Reagire
una priorità. È evidente come in provincia di Latina sia prioritaria un’azione
decisa di controllo del territorio e di repressione dei reati connessi allo
sfruttamento dei braccianti. L’aumento dei controlli sulle condizioni di lavoro
garantirebbe la salvaguardia dei lavoratori sikh da un lato e degli imprenditori
agricoli virtuosi schiacciati dalla concorrenza sleale fondata sul
neo-schiavismo dall’altro. Interventi che andrebbero a minare seriamente il
nuovo mercato di sostanze dopanti partendo dal “vertice della piramide”.
Ma
le azioni repressive non possono bastare se non unite a misure di positiva
inclusione sociale dei sikh che vivono il territorio. Una comunità ancora
totalmente isolata, senza servizi se non quelli garantiti dal volontariato e dai
sindacati. Apprendimento della lingua italiana, conoscenza e fruizione dei
servizi sanitari, anagrafici e sociali rappresentano ancora, troppo spesso, un
miraggio. Un isolamento che contribuisce fortemente al dilagare dello
sfruttamento che vede i sikh spesso impossibilitati a reagire, a pretendere il
rispetto dei propri diritti e della propria dignità.
Eppure
la provincia di Latina potrebbe candidarsi a essere un laboratorio virtuoso di
inclusione sociale, trasformando i suoi bellissimi territori da aree di
sfruttamento ad aree di diritti e dignità sociale. Ragionare su un’azione
coordinata dei tanti attori in campo permetterebbe una strategia complessiva ed
efficace. Contrasto dell’illegalità e dello sfruttamento sul lavoro, servizi
territoriali per l’inclusione sociale, agricoltura competitiva che si basi sulla
qualità dei prodotti unita al rispetto dei diritti umani, lotta alle eco-mafie e
alle varie frodi alimentari: questi gli elementi ineludibili da coordinare per
cambiare le condizioni di vita dei braccianti sikh dell’Agro Pontino, per sanare
una ferita sociale e culturale incompatibile con un Paese come l’Italia.
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