GOODYEAR,
TAKE ME HOME. REPORTAGE FOTOGRAFICO NELLA EX FABBRICA DI PNEUMATICI
Ore
9.30 di un assolato lunedì di maggio. Fa caldo, molto. La strada che unisce
Nettuno a Cisterna di Latina attraversa campi, vigneti, capannoni e villette con
giardini ordinati. Sembra di essere in Veneto. Invece siamo nella provincia
pontina, al confine con quella romana. Un tempo terra paludosa e inabitabile, fu
bonificata dal Duce che la affidò ai coloni poveri provenienti dalle regioni del
Veneto, Friuli ed Emilia Romagna. L'ordine qui è di casa, contro l'anarchico
caos edilizio della vicina capitale. Le balle di fieno dei campi accompagnano un
gruppo di ciclisti amatori, mentre un'anziana donna, con un grembiule grigio, si
apposta di fronte casa, sul ciglio della strada, pronta a vendere le verdure
della stagione.
Tra
uliveti e vigneti, spuntano nuovi e colorati capannoni industriali, che
affiancano i tanti vecchi e abbandonati, un tempo casa di migliaia di
lavoratori. Mi fermo al civico 288 di questa lunga e sorprendentemente asfaltata
strada. Un cancello verde è chiuso con un grande lucchetto. Da qui, tanti anni
fa, passavano gli operai della Goodyear, fabbrica di pneumatici che sfamò
migliaia di famiglie da Latina a Roma. Oggi, invece, quel che rimane è solo
macerie ed inquinamento. In futuro l'area sarà espropriata e diventerà di
proprietà del Comune di Cisterna, con l'obiettivo di realizzare un piano di
insediamento di nuove attività produttive. Così si legge nella delibera numero
84. Ma sembra l'ennesimo tentativo in 14 anni di menzogne.
Aperta
nel 1965, grazie ai fondi della Cassa del Mezzogiorno, nel breve giro di
pochissimi anni diventa un simbolo dell'industrializzazione dell'intero
territorio, arrivando a toccare picchi di produzione di 20.000 pneumatici al
giorno. La produzione va di pari passo con la felicità dei dipendenti. Fino agli
anni Novanta, quando la crisi comincia a farsi sentire. Si organizzano sit in
tra gli operai di fronte a proposte di licenziamenti e cassa integrazione.
Interviene la stampa, in particolare la trasmissione televisiva Circus di
Michele Santoro, durante la quale l'allora ministro dell'Industria e futuro
premier dei giorni nostri, Enrico Letta, prende la decisione di congelare i 6
miliardi di sgravi concessi alla multinazionale per gli investimenti e le
assunzioni con contratto di formazione lavoro. Impegnandosi in prima persona
contro la chiusura dello stabilimento. In accordo con i sindacati. Parole al
vento. La fabbrica chiude nel 2000. E lascia dietro di sé una scia di morte. Nel
giro di pochi anni, muoiono 250 operai di tumore e altri 50 vengono operati. La
causa è da ricercare nelle circa 150 sostanze tossiche utilizzate nel ciclo
produttivo senza nessun accorgimento di protezione adeguata da parte degli
operai. È una strage. Confermata dalla sentenza del Tribunale di Latina nel
2008, che condanna a 21 anni di reclusione ex dirigenti e direttori,
riconoscendo il nesso di causalità tra le sostanze della fabbrica e i tumori
sviluppati ai polmoni, alla laringe e allo stomaco. Ma in Italia, si sa, la
giustizia non regna sovrana. E così, cinque anni dopo, la Corte d'Appello di
Roma assolve tutti, tranne uno, perché il fatto non sussiste. In attesa della
sentenza della Cassazione.
Dietro
quel cancellone verde rimane un'aerea dismessa ma inquinata. «Non ancora
bonificata», mi dice Agostino Campagna, ex operaio e sindacalista della
Goodyear, senza il quale le morti sarebbero passate sotto silenzio.
È
lui infatti che comincia a raccogliere le cartelle cliniche dei suoi ex colleghi
nel 2000. È lui il protagonista di “Happy Goodyear”, documentario sulle morti
della fabbrica, vincitore al Roma Indipendent Film Festival 2014. Ed è lui che
mi accompagna in questo reportage.
Del
corpo centrale della fabbrica non rimane che uno scheletro. All'interno non c'è
più niente. Solo calcinacci e ferri spioventi. Tutto è crollato. Tutto è
distrutto. Di umano rimangono solo un paio di materassi abbandonati, dimora di
qualche sbandato, e un manuale di "problem analysis", di chissà quale reparto o
ufficio. L'esterno è una landa desolata. Il piazzale retrostante è solcato da
vasche ricolme di acqua piovana, un tempo sede di presse e macchinari. «Quando
hanno chiuso la fabbrica si parlava di riconversione della stessa - racconta
Agostino -. Tanti progetti e tante promesse. Invece hanno portato via tutto. E
quello che non serviva l'hanno lasciato qui. O gettato nelle vasche». Il
progetto di bonifica, finanziato con milioni di euro dall'Unione Europea, non si
è mai realizzato. Ancora si scorge il "nero fumo", una delle sostanze tossiche
assassine. Ancora è lì, che ricopre il terreno e qualche pezzo di eternit. E
chissà, analizzando il terreno, se ci sono residui di solventi, vernici, carbon
black, ammine aromatiche, derivati del benzene, pigmenti, collanti, silice,
talco. Di tutte quelle sostanze tossiche assassine, lavorate dagli operai a mani
nude o con guanti di amianto, mentre i dirigenti e medici, dal canto loro,
tacevano consapevolmente. Nessuna conoscenza di ciò che si maneggiava. Nessuna
protezione. «È incredibile che non ci sia alcuna istituzione che si occupi di
questa faccenda - afferma con preoccupazione Campagna -. Accanto alla questione
della bonifica c'è quella ancor più grave delle morti. Non è possibile che i
miei ex colleghi debbano fare visite di controllo ed esami del sangue di loro
spontanea iniziativa. Ci dovrebbe essere invece un'azione di censimento da parte
dell’ASL di tutti coloro che hanno lavorato nella fabbrica almeno per un periodo
superiore ai 5 anni». La nostra camminata tra i resti della Goodyear continua.
Nella guardiola ci sono ancora i pass di entrata per i visitatori esterni; il
parcheggio, inaspettatamente pulito, è ancora solcato dalle linee bianche che
delimitavano i posti auto; il cartello "Uscita" ti avverte di quello che era il
tragitto di una volta. E, a ritroso nel tempo, cerco di immaginare i visi e i
volti di chi attraversava quel cancellone verde, fiero di un posto fisso e di un
discreto stipendio. In un'atmosfera idilliaca e materna, sulle note della
canzone Goodyear, Take me home, tema musicale degli spot tv aziendali, incisa su
di un 45 giri dal gruppo Joe Trio e che ogni dipendente aveva in casa: "Take me
home, Goodyear take me home / Never matters how far I go / You always take me
home". Appunto.
Nessun commento:
Posta un commento