L’USCITA
DAL CAPITALISMO
di
Bruno Amoroso*
intervista
a Bruno Amoroso a cura della rivista AltreStorie
Fonte:
rivista AltreStorie
D.
L’attuale crisi è qualcosa che si poteva prevedere, oppure si è trattato di un
evento i cui fattori molteplici globali lo hanno reso in qualche modo
imprevedibile e conseguentemente incontrastabile? Quanto è fondata l’accusa
rivolta agli economisti in genere di non aver lanciato l’allarme tempestivamente
su quanto si stava preparando?
R.
«La crisi finanziaria, la più grande ondata di crimine finanziario organizzato
della storia umana, secondo le parole di James K. Galbraith, è stata preparata
nel corso di tre decenni durante i quali la globalizzazione ha avuto il tempo di
organizzarsi dispiegando tutti i suoi effetti con l’imposizione del “pensiero
unico” fino al “potere unico” dell’ultimo decennio. Tra gli economisti, e non
solo, è prevalsa la corsa a farsi “consiglieri del principe” sostituendo e
riscrivendo i libri di testo sotto dettatura del pensiero neoliberista.
Tuttavia, le analisi critiche per comprendere quanto è accaduto non sono
mancate: dai contributi premonitori di James K. Galbraith, “Lo Stato Predatore”,
a quelli di Paul Krugman e Joseph E. Stiglitz. In Italia le persone e i
movimenti che potevano denunciare e interpretare queste tendenze hanno scelto la
via opportunistica dell’”inserimento” e dell’”integrazione”, trasformando il
piano di apartheid globale della globalizzazione in un’opportunità per
arricchirsi nel “villaggio globale”, e interpretando i fenomeni reali della
“destabilizzazione politica” e “marginalizzazione economica” come
“globalizzazione dal basso” e “globalizzazione del welfare”. Si è cioè pensato
di poter predicare il pacifismo portando la guerra altrove, di combattere la
speculazione e il crimine “tassandoli” per ricavarne parte del dividendo, di
poter costruire la “città ideale” dentro le nicchie di un contesto in
sfacelo».
D.
Si sente spesso sostenere che quella che stiamo vivendo rappresenti non una
delle tante crisi cicliche vissute in passato, ma una crisi “sistemica o
strutturale”, che può essere superata solo adottando soluzioni estranee al
contesto al cui interno è maturata. È d’accordo con questa interpretazione e se
sì quali azioni si sentirebbe di proporre?
R.
«La crisi attuale è una crisi economica e sociale provocata dal successo della
nuova struttura del processo di accumulazione capitalistico, che si è dato a
partire dagli anni Settanta con la globalizzazione. Il cuore del processo è la
finanza, cioè la trasfigurazione da un sistema basato sul profitto capitalistico
a quello basato sull’esproprio dei redditi e la rapina delle ricchezze materiali
e intellettuali. La crisi in corso non ha nulla di ciclico, diversamente dalle
crisi economiche del capitalismo industriale, e troverà il suo punto di approdo
in un potere assoluto coincidente con l’impoverimento di gran parte dei
cittadini. Per questo l’uscita dagli effetti della crisi può avvenire solo con
l’uscita dal capitalismo che oggi è quello della speculazione finanziaria e
della rapina di Stato».
D.
Quale ruolo hanno giocato i mercati finanziari nella costruzione dell’attuale
situazione economica? In che misura sono stati causa della crisi e potrebbero
contribuire a sanarla?
R.
«I mercati finanziari sono le “fabbriche” che hanno sostituito quelle del
fordismo industriale, la culla della rapina e dell’esproprio. Questo percorso di
“finanziarizzazione” delle economie capitalistiche inizia negli anni Ottanta con
la modifica della legge bancaria negli Stati uniti, ai tempi di Reagan, poi
negli anni Novanta con l’introduzione di nuove regole per la finanza che hanno
consentito la produzione dei derivati e titoli tossici, con Clinton, il tutto
con il consolidarsi di un potere unico finanziario-militare illustrato
ampiamente da James K. Galbraith. L’Europa ha seguito per imitazione le stesse
politiche con le “direttive europee”, passivamente recepite anche in Italia, che
hanno introdotto la banca “universale” e la liberalizzazione dei mercati
finanziari. In Italia questo percorso è stato segnato dalla biografia di Mario
Draghi, che bene illustra i conflitti d’interessi e le collusioni tra mondo
politico e poteri finanziari. Negli anni Ottanta è direttore per l’Italia della
Banca Mondiale, negli anni Novanta diventa direttore generale al Tesoro e
privatizza il sistema bancario, introduce il Testo Unico del 1993 sulle banche
che recepisce tutte le direttive europee, comprese quelle ben note sui derivati
speculativi. Poi lascia la mano per andare a dirigere la Goldman Sachs e
contribuire così a mettere a punto la “grande truffa” che esplode nel 2008, di
cui non era a conoscenza come responsabile della sorveglianza in quanto
governatore della Banca d’Italia. Nel mentre la “sinistra” è distratta dalla
difesa dell’”autonomia” della Banca d’Italia, dalla denuncia sul conflitto
d’interessi di Berlusconi contro il quale, in ogni caso, non fa nulla».
D.
Che ruolo potrebbe rivestire l’Unione Europea in questo particolare passaggio
storico-economico? L’euro può offrire uno scudo contro la crisi?
R.
«L’euro doveva essere lo scudo, ma la sua gestione è stata affidata a chi ha
messo in moto la crisi, inutile ripetere i nomi delle persone e organizzazioni,
ed è quindi divenuto la camicia di forza che impedisce agli Stati e alla stessa
UE di reagire e di difendersi. Il ruolo dell’Europa è possibile se negli Stati
nazionali si manifestano forze popolari che si facciano carico di riprendere il
percorso di “pace” e “cooperazione” che fu alla base dell’idea di Europa nel
primo dopoguerra, e poi fatto deragliare prima dalla “guerra fredda” e
successivamente, negli anni Novanta, dalla scelta di fare del progetto europeo
un piano di “competitività” e di “guerra”. Una ricostruzione dell’Europa a
partire dai popoli e dagli Stati deve assumere una forma confederale tra le
quattro grandi meso-regioni europee (Paesi nordici, Europea centrale, Europa
mediterranea, e Europa occidentale). Uscire dal guscio asfissiante del dominio
dell’Europa occidentale e dell’alleanza atlantica è la premessa per queste nuove
politiche».
D.
Una delle affermazioni ricorrenti è che bisogna tagliare la spesa pubblica per
creare le condizioni di base utili a contrastare e superare la crisi. Quanto è
condivisibile una simile posizione? L’attuale crisi economica costringerà a
sacrificare l’attuale modello di Stato sociale?
R.
«La spesa pubblica non c’entra con la crisi e invece di guardare al deficit
dello Stato e al debito estero si dovrebbe guardare all’occupazione e al deficit
della bilancia dei pagamenti come ho spiegato nel mio libro “L’Europa oltre
l’euro”. La spesa pubblica aumenta in situazioni di crisi in ragione degli
stabilizzatori automatici che hanno il compito di evitare forti conseguenze
sociali, ed è per questo che Keynes raccomandava al governo: “Occupatevi
dell’occupazione e questa si prenderà cura del bilancio dello Stato”. Chi vuole
gli stabilizzatori sociali, cioè il welfare, non intende risolvere la crisi ma
scaricarne i costi in modo irresponsabile sui cittadini più deboli e i
lavoratori, cioè sul 99% delle persone».
D.
Cosa ha comportato e cosa comporterà per l’Europa lo spostamento del baricentro
mondiale fuori dall’Occidente industrializzato?
R.
«Significa che l’Europa deve ripensarsi e ritrovare il suo spirito di pace e di
cooperazione con le nuove aree mondiali emergenti, lasciandosi alle spalle i
vecchi mercati ricchi dell’Occidente. Insistere sul modello della guerra e della
competitività significa condannarsi al suicidio e alla marginalità sia verso
l’Occidente che verso l’Oriente. La cooperazione con le nuove aree in crescita
non si ottiene con la competitività ma con rapporti diretti e di cooperazione
tra Stati, cioè sullo scambio reale di capacità e di beni e con la messa in
comune delle risorse disponibili».
D.
Nel dibattito pubblico spesso si attribuisce la colpa dell’attuale stato di
cose, almeno in Italia, a una classe dirigente incolta, poco lungimirante e
fautrice di ripetute scelte sbagliate. Condivide questa posizione e se sì come
ritiene si possano conciliare fra loro due ambiti apparentemente così distanti
quali istanza politica e azione tecnico-scientifica?
R.
«La classe dirigente politica e imprenditoriale che abbiamo è quella che è
sopravvissuta alla guerra condotta contro il sistema italiano dagli anni
Cinquanta in poi dagli Stati Uniti, Francia e Germania, e che continua oggi.
Questa guerra è stata vinta finora prima con l’eliminazione fisica dei
personaggi scomodi (Mattei, Olivetti ecc.), poi con la distruzione del sistema
politico italiano negli anni Novanta e ancora oggi. La corruzione, esistente è
la causa di questi sviluppi e di come, attraverso i fiumi di denaro riversati
sui politici e sulle istituzioni, se ne è ottenuto il silenzio e la collusione
alla realizzazione dei piani di costruzione del consenso su un progetto italiano
ed europeo squilibrato. La reazione popolare degli ultimi anni, e espressa dalle
ultime elezioni, dimostra che il limite della sopportazione è stato raggiunto,
ma anche il fallimento di questi piani di destabilizzazione politica e di
marginalizzazione economica del Paese».
D.
Fra gli effetti della lunga crisi che stiamo vivendo vi è anche l’aumento
considerevole di giovani senza lavoro, costretti a vivere in condizioni di
precarietà e a fare i conti con un futuro dai contorni molto incerti. In che
modo tutto ciò potrà influire sulla nostra futura società?
R.
«A chi avanzava riserve critiche sulle forme dell’integrazione europea si
rispondeva che queste volevano far “sprofondare” l’Italia nel Mediterraneo.
Ebbene, è proprio l’adesione acritica alle strategie della globalizzazione e
dell’UE che sta facendo sprofondare l’Italia nel “sottosviluppo”. Ma l’Italia è
un Paese forte e le reazioni sociali e politiche che si annunciano lo
dimostrano. Il successo di questa tendenza è anche la sola speranza offerta ai
nostri giovani».
D.
Dal suo punto di vista quando ritiene si possa immaginare un’inversione di
tendenza dell’attuale dinamica recessiva? E quando ciò dovesse accadere, passato
il peggio, che insegnamenti potremmo e dovremmo trarne da quanto accaduto?
R.
«Questa crisi si fermerà quando i 4/5 della popolazione saranno ridotti in
condizioni di povertà e marginalizzazione. Un percorso avviato ma che richiede
tempo. La “ripresa” sarà una stabilizzazione e istituzionalizzazione della
povertà e della dipendenza politica del Paese dai centri finanziari. Che questo
possa avvenire in forma “pacifica” è da dimostrare. La vera ripresa ci può
essere solo se il 99% degli esclusi riprende il controllo sulla macchina del
potere politico ed economico. Le forme in cui questo avverrà, se avverrà, non
saranno indolori per le vecchie classi dirigenti e per questo si oppongono con
tutti gli strumenti a disposizione. La forza obiettiva di questo cambiamento
dipende dal fatto che l’alternativa a una vera ripresa è lo scenario
dell’implosione dell’Europa sul modello jugoslavo, a noi ben noto. La preferenza
per una soluzione, anche europea, negoziata e con un cambio di indirizzo
dovrebbe apparire ovvia e di buon senso, oltre che più giusta. Ma raramente
l’equità e la giustizia prevalgono sugli interessi costituiti».
*
Bruno Amoroso, presidente del Centro Studi Federico Caffè e collaboratore di
Comune-info, è stato uno degli allievi del noto economista Federico Caffè (nel
libro «La stanza rossa», per Città aperta, traccia il significato dell’avventura
intellettuale e umana dell’amico e maestro). Docente presso l’Università di
Roskilde (Danimarca) e quella di Hanoi (Vietnam), Amoroso è tra i promotori
dell’Università del Bene Comune ed è autore di numerosi articoli e libri (tra
cui «Europa e Mediterraneo. Le sfide del futuro» per Dedalo edizioni; l’ultima
pubblicazione è «L’Europa oltre l’Euro», edita da Castelvecchi). Altri articoli
di Amoroso sono QUI.
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