domenica 12 agosto 2012

Vuoi un posto? Fai le valige


Vuoi un posto? Fai le valigie

Perché lavoro e innovazione vanno inseguiti.

di Valentina Pasquali
Nell’era di Facebook, Twitter e Google l’economia riscopre il legame al territorio. Perché se da un lato internet e tecnologia spingono la crescita, dall'altro le aziende hanno bisogno di un humus particolare per proliferare.
Lo confermano le ultime teorie in arrivo dagli Stati Uniti secondo le quali la collocazione fisica delle imprese è sempre più importante per il loro successo economico.
IL CIRCOLO VIRTUOSO DELLO SVILUPPO. Questione di geografia? No, di innovazione e ricerca. Lo sviluppo, infatti, porta con sé nuovo sviluppo. E crea circoli virtuosi. Inseguirlo è diventato indispensabile, anche ripensando le politiche nazionali sulla mobilità.
Così la pensa Enrico Moretti, economista italiano in forza all’Università di Berkeley, in California. Che ha descritto il fenomeno in un libro di recente uscita negli Usa e non ancora tradotto in italiano, The New Geography of Job (La nuova geografia del lavoro).
«Sempre di più il successo economico sia dei lavoratori sia delle imprese», ha spiegato aLettera43.it, «dipende da dove decidono di localizzarsi».
DOMANDA. Nel suo libro parla di «grande divergenza». Cosa significa?
RISPOSTA. Da sempre esistono città i cui lavoratori sono più produttivi, più innovativi e più ricchi rispetto a quelli di altre. Questo gap è cresciuto nel corso negli ultimi 30 anni e oggi è il più elevato dell’ultimo secolo di storia americana.
D. Perché alcune città sono più produttive e altre meno?
R. Le imprese e i lavoratori che innovano vogliono essere vicini ad altre imprese e lavoratori che innovano. Quindi le aree che sono già innovative diventano sempre più attraenti, mentre quelle che non lo sono perdono appeal.
D. Lo stesso vale per l'Italia...
R. Sì. È la tragedia di molte aree produttive italiane. Dove se non si fa già innovazione è difficile crearla perché non ci vuole andare nessuno.
D. Nell’epoca digitale la geografia è così importante?
R. È il paradosso di un mondo che è sempre più interconnesso e globalizzato ma, alla fine, sempre più locale. La possibilità di comunicare con colleghi lontani è molto maggiore che in passato. Eppure, l’importanza di operare nell’ecosistema giusto è aumentata.
D. Quali sono le caratteristiche di un ecosistema virtuoso?
R. Ci sono diverse dinamiche microeconomiche che stanno riconfigurando la mappa economica del mondo. Una, per esempio, è lo spessore del mercato del lavoro.
D. E cioè?
R. È importante operare in un'area in cui ci sono molti datori e altrettanti lavoratori specializzati. Questo permette ai primi di trovare esattamente il tipo di professionalità che cercano e ai secondi di scegliere la società più adatta.
D. Cos’altro definisce l’ecosistema vincente?
R. La presenza di servizi specializzati per le imprese che operano in un certo settore.
D. Per esempio?
R. Nel settore dell’innovazione, le società di venture capital ancora oggi favoriscono chi sta vicino alla loro sede.
D. Ma le idee innovative circolano anche in Rete.
R. Essere fisicamente vicini ad altri scienziati, ingegneri e creativi è sempre più importante. È un fenomeno che riflette la natura dell’innovazione, delle idee che nascono in maniera imprevedibile dal contatto umano, non sempre mediabile dalla tecnologia.
D. Sta dicendo che lavoratori e imprese devono spostarsi?
R. Certamente. Gli americani si spostano più degli europei. Ma mentre i lavoratori che hanno una laurea sono molto più propensi alla mobilità e ne traggono vantaggio, quelli meno istruiti sono più stanziali.
D. Com'è possibile ridurre questa distanza?
R. La mia proposta è trasformare una parte del sussidio di disoccupazione in un voucher che copra i costi per chi vuole trasferirsi verso un mercato del lavoro ad alto tasso di disoccupazione. Finora infatti le politiche di sostegno dei redditi non danno nessun incentivo ai lavoratori per spostarsi. Anzi, scoraggiano la mobilità.
D. Una ricetta che vale anche per l'Italia?
R. Va detto che la mobilità all’interno del territorio nazionale è bassa. Questo trend sicuramente ha dei benefici a livello personale, perché spostarsi comporta anche sacrifici, come lasciare famiglia e amici. Al contempo però ha costi economici sempre più alti.
D. Il problema italiano, però, non è solo la mobilità. Mancano laboratori di innovazione.
R. In Italia l’impresa media è più piccola che negli altri Paesi. Gli investimenti in sviluppo e ricerca rappresentano un costo fisso: per realtà più grandi ha senso, per imprese piccole meno.
D. Non è sempre stato così. I distretti erano il nostro modello di sviluppo.
R. La globalizzazione stride con le strutture tradizionali dell’economia italiana che non ha creato hub per l'innovazione. Anzi, quelli che aveva li ha persi nel tempo. Trent’anni fa, per esempio, l’industria farmaceutica italiana era fiorente, ora è quasi completamente sparita.
D. Si può invertire la tendenza?
R. Non c’è altra scelta se vogliamo mantenere un tenore di vita da nazione post-industriale. L’alternativa è un lento declino. Bisogna ridurre i vincoli alla crescita.
D. Come è possibile concretamente?
R. Tante aziende italiane non crescono perché quando sono piccole operano in un ecosistema molto flessibile, ma appena si ingrandiscono sono schiacciate dalla pressione fiscale e burocratica.
D. Tocca al governo intervenire?
R. Il governo dovrebbe rimuovere i vincoli. Però bisogna essere onesti: molti pensano che i governi possano cambiare i destini economici delle nazioni con una bacchetta magica.
D. E invece?
R. I governi possono agire sul lungo periodo, ma hanno molto meno potere nel lenire gli effetti delle recessioni nel breve periodo. Specialmente in un contesto come quello di oggi, dove i vincoli di bilancio sono stringenti.
D. Nel frattempo i giovani sono condannati?
R. Di tutti i problemi dell’Italia, il costo economico e umano sostenuto dai giovani è quello più tragico, soprattutto per chi si è impegnato, ha studiato, ha voglia di fare. Il problema in Italia è quello della domanda, non dell’offerta. Le conoscenze ci sono. Ma non c’è lavoro.
D. Suona come una condanna.
R. L’Italia ha una struttura di mercato vecchia e, di fronte alla globalizzazione, le imprese sono rimaste spiazzate. I giovani hanno pagato il prezzo più alto. È una tragedia enorme perché ha anche effetti culturali e personali, limita la capacità di crescita delle persone. Ed è uno spreco per la nazione.

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