martedì 7 luglio 2015

GENOVA, VIAGGIO NEL CARCERE DI MARASSI. E UNA “RAGIONEVOLE PROPOSTA”: ABOLIRE LE PRIGIONI

GENOVA, VIAGGIO NEL CARCERE DI MARASSI. E UNA “RAGIONEVOLE PROPOSTA”: ABOLIRE LE PRIGIONI

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Ha saputo stamattina che sua madre è morta. Il funerale è fissato per domani alle 9,30, a Savona. Ha chiesto il permesso per potervi partecipare e adesso – sono le 18 di venerdì 3 luglio – domanda all’ispettore della polizia penitenziaria se il giudice di sorveglianza ha dato l’autorizzazione. L’ispettore non lo sa. Il detenuto insiste. Attorno a lui ci sono altri cinque compagni di reclusione che silenziosamente lo spalleggiano. L’ispettore assicura che prenderà informazioni e che in casi del genere il nulla osta nel novanta per cento dei casi arriva. Qua c’è solo un problema di tempi burocratici: è troppo tardi per contattare il giudice di sorveglianza e domani è sabato. Inoltre per raggiungere Savona dal carcere di Marassi ci vogliono una quarantina di minuti. Il detenuto un uomo sulla cinquantina, tarchiato, le braccia tatuate che sbucano da una canottiera nera, è sgomento. Mantiene la calma, ma è evidente che teme che l‘autorizzazione arrivi troppo tardi. E i suoi compagni con lui. Gli sono attorno, come volessero sostituire i familiari che forse il loro compagno domani non riuscirà a vedere.
E’ un frammento di vita quotidiana incontrato durante una delle visite che lAssociazione Antigone sta realizzando in tutte le carceri per aggiornare il suo dossier sulle condizioni della detenzione in Italia. Queste visite sono cominciate – su autorizzazione del ministero della Giustizia – fin dal 1998, prima con cadenza biennale, dal 2007 ogni anno. Il “Rapporto Antigone” è lo strumento più puntuale e aggiornato sul nostro sistema penitenziario. Per ogni carcere c’è una scheda dettagliata e questo consente di confrontare, carcere per carcere, la situazione attuale con quella dell’anno passato.
E’ quanto facciamo a Genova col direttore del carcere di Marassi, Salvatore Mazzeo, il quale confronta le “cose da fare” indicate nella scheda elaborata meno di un anno fa, dopo la precedente visita degli osservatori di Antigone, e le “cose fatte”: le docce in quasi tutte le celle, il completamento dell’area verde, il rifacimento della pavimentazione del campo di calcio e soprattutto il teatro, realizzato per buona parte in legno dai detenuti che lavorano nella falegnameria interna. All’interno del Centro clinico, l’unico in tutta la Liguria, uno dei sei attivi in Italia, è stata realizzata una piccola sezione, denominata “la Lanterna”, che può ospitare un massimo di 5 detenuti (oggi sono 3) che necessitano di una speciale osservazione di carattere psichiatrico.
A visitare le sezioni si ricava un’impressione di “buona amministrazione carceraria”. La situazione è in apparenza tranquilla, gli ambienti appaiono puliti e curati. E’ vero che si può sempre fare meglio, ma qua sembra che davvero si faccia quel che si può, con i mezzi e le strutture disponibili. E questo rende la visita ancora più interessante. Rispetto agli anni passati, infatti, il giro di ispezioni di Antigone cade in una fase nuova del dibattito sul sistema penitenziario. Un carcere “ben amministrato” consente di individuare i nodi della questione più nitidamente e ridà attualità a considerazioni come questa: “Per quanto si voglia trasformare e perfezionare il carcere non lo si può modificare in senso sostanziale… Più penso al problema del carcere e più mi convinco che non c’è che una riforma carceraria da effettuate: l’abolizione del carcere penale”. Lo scrisse nei primi anni della Repubblica Altiero Spinelli a Piero Calamandrei e la frase è citata in un saggio a più mani (Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federico Resta) uscito alcuni mesi fa per Chiarelettere. Il titolo è una perfetta sintesi del confronto in atto: “Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini: abolire il carcere”.
Un’ipotesi più che antica. Anzi, è l’idea che la reclusione sia il solo strumento per colpire i rei e garantire la sicurezza sociale a essere relativamente recente. In passato non era così. Ma ciò che caratterizza il dibattito in atto è che oggi la tesi degli “abolizionisti” si fonda non tanto su argomentazioni etiche e filosofiche, ma su dati statistici. Dati dai quali emerge che il carcere, semplicemente, “non funziona”. Per esempio si è constatato che quanti scontano l’intera pena dietro le sbarre in sette casi su dieci tornano a commettere reati, mentre tra quelli che hanno scontato la pena attraverso l’affidamento in prova ai servizi sociali i casi di recidiva sono due su dieci. E’ vero che chi beneficia della misura alternativa al carcere è stato sottoposto a un preventivo vaglio di “affidabilità”, ma lo scarto percentuale di 50 punti “è talmente consistente da non poter essere ignorato”.
Un altro argomento che fa riflettere è quello dei costi. Lo Stato per ogni detenuto rinchiuso nei penitenziari spende 125 euro al giorno. Moltiplicando questa cifra per i 365 giorni dell’anno e per il numero dei detenuti presenti nelle carceri italiane (circa 60mila) si arriva a un totale di tre miliardi di euro. Una montagna di denaro che va quasi esclusivamente al pagamento del personale e al mantenimento della struttura. Solo un irrisorio 2,5 per cento è destinato all’esecuzione penale esterna, cioè alle misure – già previste – che potrebbero consentire di sperimentare l’efficacia delle pene alternative. E gli Ufficio di esecuzione penale esterna – sottolinea ancora la “ragionevole proposta” di Luigi Manconi e degli altri studiosi – “non hanno strutture, non hanno automezzi, indispensabili per svolgere la funzione di coordinamento sul territorio dei vari servizi…”. In definitiva non hanno niente. Come se lo Stato si fosse rassegnato alla sostanziale irriformabilità del sistema carcerario.
Percorriamo le sei sezioni (che complessivamente ospitano poco meno di 700 detenuti). A un certo punto dal fondo di un corridoio appare una figura incongrua. E’ un uomo anziano che muove solo la testa. Il resto del corpo è totalmente paralizzato su una carrozzina. Siamo in una sezione ordinaria, non nel Centro clinico. E dunque questa condizione sarebbe “non ostativa” alla detenzione. Certamente è ritenuta tale. E’ una delle situazioni che si determinano senza che sia ben chiaro perché, attraverso atti che presi uno per uno sono perfettamente legittimi e che, però, conducono a risultati crudeli. Come il dramma in corso del detenuto rimasto orfano che non sa se potrà prendere parte al funerale della madre.
Nel suo ufficio il direttore è soddisfatto del lavoro svolto nell’ultimo anno, ma lo è come potrebbe esserlo il comandante di un fortino perennemente assediato. Il centro di osservazione dei reclusi con problemi psichiatrici, per esempio. Averlo realizzato è un successo. Ma, paradossalmente, rischia di trasformarsi in un problema. Mazzeo sottolinea, infatti, che sul carcere di Marassi si sta riversando un carico che dovrebbe essere distribuito tra altri luoghi di reclusione e le Asl. Lo prova tra l’altro il trasferimento di alcuni ex reclusi degli Ospedali psichiatrici giudiziari, dopo la chiusura della primavera scorsa. “Un fenomeno in atto”, lo definisce. “L’unica soluzione vera – dice – sarebbe quella di ridurre la detenzione ai casi nei quali è davvero l’unica soluzione”.
A conferma del carattere ‘pragmatico’ e non ideologico del rinnovato confronto sul superamente del carcere c’è proprio questo: l’attenzione di chi sta sul fronte. Secondo il direttore del carcere di Marassi, se la reclusione fosse riservata ai soli casi in cui è veramente necessaria la popolazione carceraria si ridurrebbe subito di un terzo. Ma la diminuzione sarebbe molto più consistente se si trovasse il modo di applicare le pene alternative ai reclusi stranieri. E se le carceri non dovessero farsi carico di una parte dei problemi non risolti dalle politiche sull’immigrazione, a conferma del ruolo di “supplenza” che le prigioni hanno assunto in Italia. Se infatti a Marassi i detenuti stranieri sono il 60 per cento (e mediamente sono il 50 per cento nelle carceri del Nord Italia) è perché si sono riversati sul sistema penitenziario gli effetti delle leggi sull’immigrazione che hanno determinato un aumento esponenziale delle situazioni irregolarità. Gli stranieri regolarizzati commettono mediamente meno reati degli italiani.
Una dibattito complesso, difficile. Su cui pende costantemente il rischio della ideologizzazione. Ma l’ipotesi di arrivare a ridurre la pena detentiva non è un esercizio di “buonismo”. Parte dalla constatazione dell’inefficacia del sistema attuale e dall’esistenza in altri Paesi di pene alternative al carcere che funzionano efficacemente, mentre da noi funzionano con difficoltà le istituzioni che dovrebbero favorire l’applicazione delle misure alternative già previste. Col risultato che da soli ospitiamo il 40 per cento della popolazione detenuta in Europa e siamo stati più volte richiamati e sanzionati per il sovraffollamento delle carceri. Come se la nostra antica cultura giuridica davanti a questo problema ammutolisse. E’ proprio contro questa rassegnazione che punta il dito Gustavo Sagrebelsky nella prefazione al saggio sull’abolizione del carcere: “Non ci appare stupefacente – domanda – che in tanti secoli l’umanità che ha fatto tanti progressi in tanti campi delle relazioni sociali non sia riuscita a immaginare nulla di diverso da gabbie, sbarre, celle dietro le quali rinchiudere i propri simili come animali feroci?”.

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