venerdì 8 gennaio 2016

Arabia Saudita contro Iran: la guerra che spaventa il mondo

Arabia Saudita contro Iran: la guerra che spaventa il mondo

di Alessandro Aresu

Il conflitto tra iraniani e sauditi non nasce certo con l’esecuzione del religioso Nimr al Nimr, ma si inserisce nelle rivalità tra arabi e persiani, oltre che tra sunniti e sciiti. La sua escalation deriva dalla crisi d’identità del tradizionale alleato dell’Occidente, l’Arabia Saudita.

La petromonarchia del Golfo è alla ricerca disperata di un nuovo ruolo per fare i propri interessi: mantenere per sempre il potere della sua casa regnante e sostenere col denaro il credo wahabita che legittima il suo ruolo centrale nel mondo arabo. Tutte le mosse dei sauditi, compresi i cosiddetti “passi avanti” sul ruolo delle donne, rispondono a questo imperativo. 

La monarchia saudita ha affrontato negli ultimi cinque anni tre eventi di impatto globale. Anzitutto, le primavere arabe in cui il Qatar, distanziandosi dai sauditi, ha sostenuto apertamente i Fratelli Musulmani, per poi riallinearsi. In secondo luogo, i cambiamenti della geopolitica dell’energia, con il nuovo ruolo degli Stati Uniti e l’impatto del prezzo del petrolio sui conti pubblici. In terzo luogo, l’accordo sul nucleare iraniano, considerato un tassello del rafforzamento della “Mezzaluna Sciita” guidata da Teheran. Mentre i paesi europei (Italia compresa) vedono con molto favore la ripresa regolare delle relazioni economiche e commerciali con l’Iran, oggi l’Arabia Saudita ha profondi problemi di immagine pubblica sulla scena internazionale: per esempio, dopo la strage di Parigi è stata definita su un giornale come il New York Times “un ISIS che ce l’ha fatta”.   

L’Arabia Saudita non accetta il ritorno a pieno titolo dell’Iran nell’equilibrio del Medio Oriente e questa posizione ha un impatto globale. Infatti, la lotta contro il suo nemico esistenziale è anche diventata anche una battaglia contro Obama, che ha fatto dell’accordo con l’Iran la priorità della sua politica mediorientale e il centro della sua eredità sulla regione. Le speranze dei sauditi sono affidate ormai al nuovo presidente degli Stati Uniti, che sia democratico o repubblicano, e sarà interessante vedere in che modo utilizzeranno le loro risorse diplomatiche, economiche e mediatiche in questo anno elettorale americano. Nawaf Obaid, un ricercatore di Harvard che riporta sui media internazionali l’opinione della monarchia saudita,ha detto con chiarezza: “Non ci sono più aspettative su questa amministrazione. Le cose ripartiranno da zero quando Obama se ne andrà”. Per opporsi all’Iran, i sauditi sono letteralmente disposti a tutto. Si sono avvicinati ai Fratelli Musulmani. Hanno attuato la loro “rivoluzione giovanile”, con il ruolo centrale assunto da un ministro della Difesa di trent’anni, il vice principe ereditario Moḥammad bin Salman, protagonista della nuova dottrina militare saudita e della guerra in Yemen. 

In questo scenario, il conflitto tra Arabia Saudita e Iran può spaventarci per tre ragioni. 

La prima è il carattere rivoluzionario delle tre principali potenze islamiche del Medio Oriente. Questo vale, per definizione, per la forma di governo dell’Iran, e non va dimenticato. Ma vale certamente per il proselitismo wahabita, nella sua espansione – pensiamo all’Africa – e nei mezzi che porta avanti per difendere la monarchia saudita su scala regionale e globale. E vale anche per il ruolo ambiguo della Turchia nella regione, lontano dall’obiettivo di ridurre il caos.  

Il secondo motivo per preoccuparsi è il tramonto di ogni forma di pluralismo, quel pluralismo che è il vero sconfitto del caos del Medio Oriente. La vittima principale è stata ed è la comunità cristiana. Adesso vedremo un nuovo aumento delle tensioni tra sunniti e sciiti, anche nella stessa Arabia Saudita.  

Infine, non dobbiamo dimenticare il punto più importante: il conflitto tra Arabia Saudita e Iran dimostra ancora una volta che sconfiggere Daesh non è la priorità, per la maggior parte delle potenze del Medio Oriente. E questa nuova fase del conflitto, al di là delle rassicurazioni dei governi, può allontanare una soluzione diplomatica per la Siria. 

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