giovedì 10 settembre 2015

Giornalista che scalcia i migranti, che vergogna

Giornalista che scalcia i migranti, che vergogna

di Mariano Sabatini
Ho sentimenti contrastanti nei confronti di questa professione giornalistica con la quale mi guadagno da più di vent’anni il pane e companatico (senza stravizi), e con la quale – in collaborazione con la madre – sopperisco alle esigenze composite delle mie meravigliose figlie e della nostra bellissima cagnolina, di nome Eimì. Sulla “passionaccia”, come l’ha definita Enrico Mentana in un libro di riflessione sul suo percorso professionale, ho scritto Ci metto la firma! in cui racconto la gavetta di sessanta grandi firme, di televisione, carta stampata, web, radio, eccetera.

Cito il mio libro, pubblicato a suo tempo da Aliberti, perché è da tempo fuori produzione e dunque non percepisco più un centesimo da eventuali acquisti. Ammesso che sia ancora possibile. Lo cito perché ancora oggi chiunque lo legga, magari prendendolo a prestito in biblioteca, mi ringrazia. Nonostante la disoccupazione dilagante anche in questo settore, ci sono infatti tantissimi giovani che ancora sognano di metterci la firma.  E nelle esperienze che raccoglie il libro ravvisano un furore positivo; necessario all’ottenimento del titolo di giornalista superando ostacoli, subendo umiliazioni, inghiottendo frustrazioni… tra attese, porte chiuse in faccia, telefonate tempestose. Parlo di quanti non abbiano santi in Paradiso.

Senza dubbio la vanità gioca un ruolo essenziale nella spinta a diventare giornalista. Subito dopo però bisogna rendere strumentale questa vanità: farla diventare un pungolo, per mettersi al servizio degli altri. Dei lettori. Del pubblico televisivo. O quello che sia. Dicevo dei sentimenti contrastanti perché ho visto a La vita in diretta un’immagine da far accapponare la pelle. A tutti. Ma di più a noi giornalisti.

Una cosiddetta collega ungherese, una che in Rai si definirebbe una telecineoperatrice (ai profani dico che in Italia hanno giustamente diritto di sostenere l’esame di Stato per diventare giornalisti professionisti), è stata immortalata dai suoi stessi attrezzi del mestiere mentre, pur continuando a imbracciare la sua telecamera, faceva sgambetti e dava calci ai migranti in fuga. Un gesto di gravità cubitale, dinanzi al quale ho provato una profonda vergogna per l’appartenenza alla medesima categoria.

Pensandoci, vengono i brividi: quella signora, sia detto con tutta l’ironia del caso, fa lo stesso mestiere di Miran Hrovatin che con Ilaria Alpi ci ha rimesso la pelle nell’espletamento delle sue funzioni. Allora posso affermare senza scrupoli di sorta che gioisco all’idea che Petra Laszlo, questo il nome della tizia, sia stata licenziata in tronco.  A parziale discolpa della categoria, la cui reputazione già precaria è stata ulteriormente danneggiata da quello sgambetto ignobile, bisogna ricordare che un altro telecronista, Stephan Richter, non ci ha pensato un minuto a diffondere a livello planetario i venti secondi dell’infamia. Emanuela Falcetti su Rai1 ha invocato la gogna mediatica. A me basta che la Laszlo sia messa nella condizione di non più nuocere. Come il professor Scattone, pur nel pieno diritto di reinserirsi nella società, è per me inadatto a insegnare; quest’altra è indegna di fare la giornalista.

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