sabato 26 settembre 2015

30 ANNI FA IL SACRIFICIO DI GIANCARLO SIANI.

30 ANNI FA IL SACRIFICIO DI GIANCARLO SIANI. SI ARRIVERÀ AI MANDANTI ANCORA A VOLTO COPERTO?
di Andrea Cinquegrani
23 settembre 1985. Trent’anni fa veniva ammazzato Giancarlo Siani, il giovane cronista napoletano diventato uno dei simboli forti dell’impegno civile, un giornalista che lotta per scoprire la verità, anche a costo della vita. Che ficca il naso dove non dovrebbe, che cerca di alzare il velo sui rapporti sporchi – già tanti anni fa – tra politica e camorra, che non ha paura di indagare sui potenti, sui loro affari, sulle loro connection.
Ma siamo alle solite. Con enorme fatica un’inchiesta morta, dopo i primi clamorosi errori ed omissioni, è rinata a inizio anni ’90. Anni di indagini, un PM coraggioso come Armando D’Alterio (oggi procuratore capo a Campobasso) che riesce a trovare il bandolo della matassa e ad individuare gli esecutori materiali di quell’agghiacciante delitto. È di metà ’99 la sentenza pronunciata dalla Corte d’assise d’appello che conferma il primo grado, manda in galera i killer. Un buon successo, visti i tempi che tirano, una giustizia spesso cieca davanti alle pistole fumanti, percorsi popolati di buchi neri, casi irrisolti, misteri di Stato. Stavolta, almeno chi ha ucciso Giancarlo è in gattabuia. Ma i mandanti? È possibile mai che si tratti di un delitto tutto interno alla camorra? I dubbi sono sempre stati fortissimi. “Sarebbe uno dei rari casi – commenta un penalista che ne visti tanti di processi a Napoli – in cui la camorra avrebbe fatto solo di testa sua, senza rispondere a volontà più alte, rischiando di attirare i riflettori giudiziari e mediatici su di sé, e mettendo a repentaglio tanti suoi business. Soprattutto se c’è lo zampino anche della mafia, è escluso che non ci siano mandanti, politici o colletti bianchi, purtroppo ancora a volto coperto, come è capitato per le stragi di Capaci e via D’Amelio”.
A quanto pare, pochi mesi fa l’inchiesta è stata riaperta, per alcune “notitiae criminis” contenute in un volume, “Giancarlo Siani, il caso non è chiuso” scritto da un giornalista de Il Roma, Roberto Paolo. Il quale riprende una pista già scartata dalla magistratura nei primi mesi di (non) indagini: “non furono i clan vesuviani ad ordinare il massacro di Siani – scrive Michele Di Salvo, commentando il libro – per punirlo per aver raccontato i rapporti tra i Nuvoletta e la politica locale, ma i Giuliano di Forcella, perché il cronista napoletano stava per pubblicare una sua inchiesta in cui rivelava le mani del potente clan nella gestione delle cooperative dei detenuti: i sicari partirono da Chiaia, dalla città ‘bene’, non dalla provincia. E su questa tesi, prove e riscontri alla mano, la Procura della Repubblica di Napoli ha aperto un fascicolo, affidato a due PM di tutto rispetto: Enrica Parascandolo e Henry John Woodcock”.
Ma il libro di Paolo, in realtà, era basato su un’inchiesta dello stesso cronista, pubblicata sempre sul Roma, che partiva da un altro libro – l’ennesimo della story – scritto nel 2010 da un ex camorrista diventato poi poeta e scrittore (simile il percorso effettuato da Nunzio Giuliano), Giacomo Cavalcanti, che pubblica con Pironti “Viaggio nel silenzio imperfetto”: tutto si basa su un presunto colloquio che Cavalcanti avrebbe avuto in carcere con un altro detenuto che gli rivela di aver fatto parte del commando di fuoco che assassinò Giancarlo. Così commenta tre anni fa nel più autorevole volume scritto sul caso, “Giancarlo Siani – Passione e morte di un giornalista scomodo”, Bruno De Stefano, già autore di svariate pubblicazioni sulla camorra (“I boss della camorra”, “La penisola dei mafiosi”, “La Casta della Monnezza”): “Sulle tracce contenute nelle pagine del “Viaggio nel silenzio imperfetto” si lancia il Roma che, attraverso un’inchiesta di Roberto Paolo, prova a smontare la tesi ufficiale, e cioè che il cronista sia stato ucciso per aver dato del traditore ai Nuvoletta. La Procura, intanto, riapre formalmente l’inchiesta, che però non produrrà alcun risultato: impossibile provare che sia davvero esistito il presunto assassino che si è confidato con Cavalcanti”.
E allora: la nuova inchiesta porterà a qualcosa? Riaperta per l’ennesima volta, riuscirà a far luce sui buchi neri rimasti? E a trovar traccia dei famigerati mandanti a volto coperto?
Intanto, pare che sia stato di recente sentito nientemeno che Giovanni Brusca, in vena di verbalizzazioni in questi mesi (avendo anche testimoniato al Borsellino quater). Sarebbe stato ascoltato, Brusca, dai PM partenopei perché, in quanto affiliato a Cosa Nostra e tra i suoi uomini più in vista, era in contatto con i Nuvoletta di Marano, i reali referenti della cosca siciliana in Campania. Sono emersi nuovi elementi? Aperte (semi)nuove piste? Mistero.
Ripercorriamo rapidamente il giallo Siani. Da quella tragica notte del 23 settembre, a bordo della sua Meari, trucidato a un passo da casa, la centralissima piazza Leonardo al Vomero. Dopo pochi giorni viene subito sbattuto il classico mostro in prima pagina, l’Agnello (Giovanni) sacrificale. Non c’entrava niente. Avoca a sé le indagini l’allora procuratore capo, Aldo Vessia. Peggio che andar di notte. È la volta della pista Rubolino (morto alcuni fa in circostanze misteriose e sepolto in Vaticano, nella riservatissima cappella dove è stato tumulato anche Renatino De Pedis, boss della Magliana): ma Giorgio Rubolino, avvocato di belle speranze e molte amicizie che contano, verrà poi scagionato. Eccoci quindi – tra un magistrato e l’altro che si alternano nell’inchiesta – a due sottopiste: una porta, come già detto, alle cooperative dei detenuti (un tema bollente che continuerà per tutti gli anni ’80, esplodendo con il coinvolgimento dei vertici coop, Lega “rossa” – sic – compresa e il suicidio di un suo funzionario) e ai rapporti con il sottobosco politico. L’altra alla casa d’appuntamenti di via Palizzi, sulla quale a quanto pare Giancarlo stava indagando: frequentata da alcune modelle-amiche dello stesso Rubolino e, soprattutto, da magistrati e politici in vista. “Cosa sarebbe successo – commentano ancora oggi in tribunale a Napoli – se fosse saltato fuori che un paio di democristiani in rampa di lancio frequentavano delle giovani squillo? Carriera stroncata”. Verbalizza, su quella pista, un pentito che ne ha raccontate delle belle anche sulle storie di Maradona e la coca, Pietro Pugliese. Ne parla una puntata bollente del Telefono Giallo di Corrado Augias. Ma non succede niente. Pista abbandonata. Si va dritto verso l’archiviazione. Nessun colpevole. Mandanti e killer liberi come fringuelli.
Seguiamo il filo del racconto attraverso le documentate pagine di Bruno De Stefano. “La sonnolenza investigativa sul caso Siani viene scossa agli inizi del 1991 da una lettera anonima recapitata a decine di redazioni di quotidiani e periodici locali e nazionali nella quale si sostiene che nel Comune di San Giuseppe Vesuviano si ricicla danaro sporco della camorra. A suscitare l’interesse di cronisti e investigatori non è la faccenda del riciclaggio ma un passaggio nel quale si fa riferimento a un giornalista ammazzato proprio perché aveva scoperto i canali attraverso i quali i clan ripulivano svariati miliardi”.
Alla Voce decidiamo di approfondire la vicenda. Anche perché – scopriamo – l’unica querela ricevuto da Giancarlo proveniva proprio dal sindaco di San Giuseppe, Antonio Agostino Ambrosio. A settembre pubblichiamo una cover story, con un intervento di Amato Lamberti, il fondatore dell’Osservatorio sulla camorra, al quale Giancarlo collaborava: e proprio poche ora prima del delitto, i due si sentono, Giancarlo è preoccupato, si vuol vedere con Lamberti, prendono appuntamento per la mattina seguente. E quella notte Giancarlo viene ammazzato. Così scrive Lamberti sulla Voce: “La ragione dell’omicidio va ricercata in ciò che Giancarlo sapeva o voleva fare, non in qualcosa che aveva già fatto”.
Chiede con forza, Lamberti, che l’inchiesta venga riaperta. E la giustizia – miracolo di San Gennaro – stavolta risponde. È il PM Lucio Di Pietro ad aprire un nuovo fascicolo. Tre mesi dopo un colpo di scena (nel frattempo veniamo querelati dal solerte sindaco Ambrosio, primo cittadino del Comune più sciolto d’Italia). Alla redazione della Voce si presenta un docente universitario, Luigi Di Maio. E ci racconta una storia incredibile. Negli ultimi mesi si era incontrato più volte con Giancarlo che stava raccogliendo una grossa mole di notizie sui rapporti tra imprese di costruzione e politici, in particolare dell’area vesuviana, e sugli appalti alimentati dalle risorse del dopo terremoto, un fiume di soldi. “Aveva intenzione di fare un grosso scoop, con ogni probabilità un libro”. E più nello specifico: “Mi disse che partendo dalla 219 era arrivato alla Imec e che, a suo parere, dietro l’azienda c’era la camorra, e anche uomini politici. In particolare cercava di appurare se un socio occulto fosse l’onorevole Francesco Patriarca. Poi cercava quante più notizie possibile sui collegamenti fra la stessa Imec e l’impresa Passarelli, il cui titolare è il cognato di Patriarca”.
Facciamo un salto indietro. Tra l’88 e l’89 Di Maio viene convocato in Procura dal giudice Arcibaldo Miller (che poi sarà il coordinatore del pool sul dopo terremoto e quindi capo degli ispettori ministeriali). Gli racconta una serie di fatti, appalti, collusioni, e gli parla di Siani. Miller ritiene molto interessanti le cose e chiama il collega Guglielmo Palmeri, che all’epoca ha in mano il caso. “La convoco presto per verbalizzare”, dice Palmeri. Di Maio va per ben due volte dal giudice, che però è molto impegnato. E non trova il tempo per farlo verbalizzare. Non lo troverà mai, e archivierà il tutto.
Dopo l’intervista della Voce, sarà Lucio Di Pietro a convocare il professor Di Maio, che fornirà una serie di dettagli sul lavoro di Siani (tra l’altro, il libro che stava per essere pubblicato, come racconta anche la ragazza di Giancarlo, Chiara Grattoni), le ricerche, la sua voglia di scoperchiare quel pentolone, e soprattutto di far luce sui rapporti camorra-politica.
Nel frattempo, cosa fa il Mattino? Una settimana dopo la scottante verbalizzazione di Di Maio, il quotidiano per il quale Giancarlo lavorava fa il pompiere e scrive: “Caso Siani, si va verso l’archiviazione”. Venti righe perché, ancora una volta, giustizia non sia. C’è forse timore, a via Chiatamone, che salti fuori il rapporto ’93 dell’ex capo della Squadra Mobile Bruno Rinaldi che descriveva un “ambiente” – quello del Mattino – a tinte che più fosche non si può? La sparizione di notes e agende di Giancarlo dalla sua scrivania di via Chiatamone? I rapporti (anche di parentela) di qualche collega e pezzi da novanta della politica ai quali potevano dar fastidio non solo le inchieste passate di Giancarlo, ma soprattutto quelle in fase di ebollizione?
Comunque molti al Mattino stappano lo champagne: il caso ha ripreso a marciare al rallentatore, Di Pietro viene trasferito a Roma, il fascicolo passa al PM Vittoria De Simone. Nessun passo in avanti e anche De Simone cambia sede, direzione Bologna. Alla fine del lunghissimo cammino, approda sulla scrivania di D’Alterio. Che imprime un’accelerazione e ha la buona sorte di imbattersi in un pentito, Salvatore Migliorino, il quale verbalizzerà che “l’omicidio del giornalista era stato fatto da noi perché Siani dava fastidio”. Da qui parte il bandolo della matassa che D’Alterio segue meticolosamente, assicurando alla giustizia i killer di Giancarlo, che verranno condannati in tutti i tre gradi di giudizio.
È lo stesso D’Alterio, intervistato da De Stefano, a far intendere che alcuni aspetti sono rimasti ancora nell’ombra. “Come replica a chi ritiene che Siani fu ucciso per le sue indagini sull’intreccio mafia-politica?”. Risponde il giudice: “Dico che sono del tutto d’accordo con chi sostiene questa ipotesi, tanto è vero che una ricostruzione che va in questa direzione è contenuta sia nel capo di imputazione da me formulato, sia nella mia richiesta di misura cautelare e poi nella requisitoria al processo, nella quale la causale riferita all’articolo di stampa (articolo di qualche mese prima che avrebbe provocato le ire dei clan, ndr) di Siani viene individuata come l’ultima causa, quella definitivamente scatenante, e tuttavia rafforzata dalla circostanza che quel fatto consolidò l’ostilità verso Siani cagionata delle sue inchieste sull’intreccio mafia-politica. E ciò sulla base di un solido impianto probatorio”.
Lapidario il giudizio di Amato Lamberti, il più profondo studioso della camorra: “Io sono convinto che si tratti di un delitto politico”.

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