sabato 23 maggio 2015

Quando a decidere in redazione è la camorra

Quando a decidere in redazione è la camorra: storia di Enzo Palmesano licenziato perché "scomodo"

Le parole del giornalista più volte minacciato: "Hanno fatto il vuoto intorno a me, non lavoro più da anni"

Il giornalista casertano Enzo Palmesano
Il giornalista casertano Enzo Palmesano
di Antonella Loi   (@an_loi)
"A Marano uccisero Siani, ebbero 7 ergastoli. (…) Adesso dico io perché devo prendere l’ergastolo per un uomo di merda di quello? Magari gli devi dire che non nomina più a Lello Lubrano, che lo lasciasse stare in grazia di Dio". Il virgolettato è tratto da un’intercettazione tra Vincenzo Lubrano, boss camorrista, e il nipote "acquisito", Francesco Cascella. Il Siani al quale si fa riferimento è Giancarlo, giornalista del Mattino, ucciso a Napoli nel 1985 per volere della cosca mafiosa dei Nuvoletta, imparentata con gli stessi Lubrano. Citazione inquietante, perché "l’uomo di merda" al quale si fa riferimento è Enzo Palmesanocronista del Corriere di Caserta (oggi Cronache di Caserta) e attento "biografo" della cosca camorrista, nel senso dell'insistenza nel raccontarne le gesta a mezzo stampa.
Quello che segue a questa intercettazione, emersa nel corso dell’inchiesta della Dda di Napoli chiamata “Operazione Caleno”, è un inedito giudiziario: il nipote “acquisito” si reca dall’allora direttore del giornale casertano, Gianluigi Guarino, e gli chiede di “ridimensionare” il cronista scomodo. Detto fatto: nel 2003 Palmesano viene licenziato. E messo a tacere. Come dire – leggendo tra le righe - che il risultato è lo stesso dell’omicidio Siani ma senza il rischio del “mutuo a vita” da pagare negli stretti corridoi del 41bis. Del giornalista “vittima di mafia” e di come le redazioni possano essere addomesticate ha scritto Roberto Saviano in un articolo apparso sulla Repubblica qualche giorno fa. Tiscali Notizie lo ha raggiunto al telefono.
Palmesano, con la sentenza del tribunale di Santa Maria Capua Vetere (condanna in primo grado a due anni pena sospesa per Francesco Cascella) i giudici hanno dipinto un quadro a tinte fosche.
"Quanto accaduto a me, in Campania è pane quotidiano. Sono convinto che ci siano altri casi non ancora venuti alla luce. E’ possibile perché dove sto io a Pignataro Maggiore, in provincia di Caserta, ci sono gli alleati dei corleonesi. Mafia propriamente detta. E’ un fenomeno di classi dirigenti, è un capitalismo armato. E quando vogliono mettere a tacere un giornalista, lo vogliono censurare, lo possono fare. Non ti pieghi? E noi ti facciamo cacciare".
Soluzione semplice ed efficace: una voce scomoda messa a tacere. 
"Soluzione vera perché nessuno saprà mai il perché. E’ solo grazie all’inchiesta della Dda che sono venuto a sapere che contro di me c’è stato un diktat. In 12 anni mai una spiegazione di quanto mi sia accaduto".
Rivediamo i fatti dall’inizio. 
"Nell’estate del 2003, dopo una serie di articoli censurati, vengo cacciato e non so più nulla. Nel 2009 vengono emessi degli ordini di cattura nell’ambito dell’Operazione Caleno della Dda di Napoli. Emerge che Enzo Palmesano, giornalista scomodo, era stato messo da parte: fine della sua collaborazione con il Corriere di Caserta per ordine del boss Vincenzo Lubrano, alleato di Totò Riina e dei Corleonesi. Il 24 febbraio esce la notizia sui giornali e il 24 sera tentano di bruciarmi la macchina sotto casa. Mio figlio se ne accorge, urla e li mette in fuga. La macchina era a gas, potevano fare una strage".
Precedentemente aveva subito altri atti intimidatori?
"Ce n’è stato un altro nel 1998, mi inviarono dei proiettili. Grazie ad un collaboratore di giustizia, nel corso dell’Operazione Caleno si scoprì che il mittente era un boss, Pietro Ligato. Si scoprì anche un’altra cosa: mio figlio Massimiliano che lavorava per un’impresa edile era stato licenziato sempre per ordine della camorra. Il collaboratore conferma che questi fatti erano collegati tra loro. Un piano preciso per farmi terra bruciata intorno".
Tutto questo viene scritto nero su bianco nella sentenza di primo grado del 2014. 
"Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, infatti, riconosce questi fatti e condanna in primo grado Francesco Cascella a due anni, pena sospesa, e al pagamento di una provvisionale più il risarcimento del danno".
Le mani della camorra in redazione e un giornalista vittima di reato di tipo mafioso. 
"E’ un riconoscimento importante. Oggi ho la possibilità di accedere al Fondo di rotazione per la Solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso (legge 512/1999) e sono pochi i giornalisti che hanno avuto questo riconoscimento. Anche perché tra i requisiti per accedere al Fondo c'è che devi avere una sentenza passata in giudicato o, come nel mio caso, una sentenza in primo grado però con una provvisionale. Come gli imprenditori che si ribellano al racket".
Il 2003 è il suo giro di boa. Cosa è successo dopo la cacciata dal giornale?
"Dal 2003 la mia vita, ma forse anche da prima, è stata un inferno. Dico che se non siamo tutti morti o impazziti a casa mia è stato per una forza d’animo straordinaria. Dopo la cacciata, è cominciata una campagna denigratoria da ambienti politici che hanno messo in giro voci secondo cui io ero stato mandato via perché inattendibile. Forse questi politici erano legati ad ambienti mafiosi? Non lo so".
Per un giornalista può essere la morte professionale.
“Eppure io non sono mai stato condannato per diffamazione. Verifico sempre le notizie scrupolosamente. Lo dico anche ai colleghi giovani: attenzione alle querele. Perciò non capivo le denigrazioni”.
Poi sapere di essere nel mirino dei boss…
“Le intercettazioni hanno rivelato che questi qua tutti i giorni leggevano i giornali, io scrivevo e loro commentavano. Se io monitoravo gli affari della camorra loro monitoravano la mia vita, i miei spostamenti, quello che facevo e non facevo”.
In tutta questa vicenda noto l’assenza degli altri giornalisti. Sbaglio?
"Ho fatto per undici anni una battaglia in solitudine, prima di avere la sentenza. L’ordine dei giornalisti non si è costituito parte civile con me e quando hanno letto la sentenza in tribunale ero da solo. Il sindacato ugualmente assente. Vicino a me solo la dottoressa Liana Esposito e Giovanni Conso, i magistrati titolari dell’Operazione Caleno. Per il resto totale solitudine".
Gravissimo.
"Sì gravissimo, perché queste persone, i camorristi, ti distruggono la vita. E penso ai giovani colleghi che sono costretti a lavorare in totale solitudine: come si fa a mantenere la schiena dritta?"
Oggi si è affrancato da quella situazione?
"Assolutamente no. Quando ti fanno il vuoto intorno, scateni il meccanismo. Mi spiego: in questo clima, quando vedi soprattutto atteggiamenti morbidi fra i colleghi, cominci a fare polemiche anche con l’ambiente giornalistico. Quindi prima ti metti contro i capi mafiosi, poi gli ambienti politici collegati, poi i giornalisti che secondo te non hanno la schiena dritta e va a finire che sei tu contro il resto del mondo. E se poi vai a cercare lavoro, bussi e trovi tutte le porte chiuse. Meno male che sono in salute, sennò…".

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